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L'antica arte dell'oratoria arma vincente di Barack

di Sam Leith

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20 Gennaio 2009

Obama tenne il suo primo discorso quando era ancora giovanissimo. All'Università di Los Angeles gli chiesero di introdurre un piccolo comizio contro l'apartheid. Era una folla composta, secondo la sua descrizione, da «qualche centinaio di persone irrequiete dopo il pranzo», con un paio di studenti che giocavano a frisbee da una parte. Ma mentre aspettava di parlare, Obama si ricordò della «capacità rivoluzionaria» delle parole del padre. «Se solo potessi trovare le parole giuste, pensavo, tutto potrebbe cambiare: il Sudafrica, la vita dei bambini del ghetto a pochi chilometri da qua, il mio stesso, esiguo posto nel mondo». Salì sul palco, scrive lui stesso, «in trance».
Oggi, Barack Obama terrà il discorso più importante della sua vita. La storia della repubblica americana può essere ricostruita attraverso la sua retorica: «Or sono diciassette lustri e un anno che i nostri padri costruirono, su questo continente...»; «We shall overcome»; «Non chiedetevi che cosa può fare il vostro Paese per voi...»; «Ich bin ein Berliner»; «Io ho un sogno». I politici possono oggi avvalersi dei servizi di squadre di speechwriters ma è impensabile che un politico con la storia di Obama, che ha affinato l'arte della persuasione facendo l'attivista politico a Chicago, che l'ha rifinita nelle aule di Harvard, possa limitarsi a leggere il copione di qualcun altro. I suoi discorsi sono elettrizzanti, pieni di una retorica estremamente formale, di quella ravvisabile nei filosofi antichi e negli studiosi del trivio medievale, dove la retorica costituiva, insieme alla grammatica e alla logica, uno dei tre rami dell'istruzione. Quello che fa Obama è vecchio quanto Aristotele, che con la Retorica gettò le basi dell'arte della persuasione. Prendiamo per esempio la "trimembre", una delle più famose figure retoriche, cioè l'uso di tre termini in ordine ascendente, come il veni, vidi, vici di Giulio Cesare. Spesso Obama costruisce le sue trimembre partendo da coppie bilanciate (uomini e donne, colore e credo, giovani e vecchi), di cui i suoi discorsi sono pieni. Lo scorso luglio, a Berlino, sulle orme di JFK, ha detto: «Mentre parliamo, automobili a Boston e fabbriche a Pechino stanno sciogliendo le calotte polari dell'Artico, restringendo le coste dell'Atlantico e portando la siccità nei campi coltivati, dal Kansas al Kenya». Una coppia (Boston e Pechino) che introduce una "tripartizione" dove il terzo termine è a sua volta sdoppiato, il tutto intriso di allitterazioni. È uno stile stile meravigliosamente e intenzionalmente musicale.
T.S. Eliot disse che il significato di una poesia era qualcosa che il poeta usava per distrarre il lettore mentre la poesia produceva il suo vero effetto. Si potrebbe dire qualcosa di simile per la retorica politica. Gran parte del suo effetto dipende da come suona o scandisce. Lo slogan vincente di Obama, "Yes we can" deve gran parte della sua efficacia alle tre sillabe accentate.
La ripetizione, specialmente nella forma dell'anafora (quando una frase viene ripetuta all'inizio di una serie di frasi) è un altro degli strumenti principali dell'oratoria politica, e Obama ne fa larghissimo uso. «Sapete, dicevano che questo momento non sarebbe mai venuto. Dicevano che eravamo troppo ambiziosi. Dicevano che questo Paese era troppo diviso...» (3 gennaio 2008, caucus dell'Iowa). Obama si è proposto, e la sua retorica lo propone, come l'erede delle tradizioni retoriche e politiche di Abraham Lincoln, Martin Luther King e Gesù Cristo. Quest'ultima comparazione potrà sembrare una facezia ma non è così. In due occasioni - quando dichiarò l'intenzione di candidarsi, a Springfield e la notte delle primarie del New Hampshire - Obama fa riferimento a King, lo inserisce in un passaggio esplicitamente biblico: «Un re che ci ha guidati in cima al monte e ci ha indicato la via per la Terra Promessa».
Il grande movimento doppio del discorso della notte elettorale, a Chicago, il 4 novembre, è l'espansione: dal locale, al nazionale al globale; dal momento presente al grandioso arco temporale della storia. Ancorando la parte finale del discorso alla vita della 106enne Ann Nixon Cooper, Obama viaggia attraverso il XX secolo fino a giungere al presente, dal Sud segregazionista alla luna.
Durante la campagna elettorale, alcuni repubblicani hanno dileggiato Obama proprio per la sua scioltezza oratoria («uno snob che lavorava con le parole»). Questo tentativo di sfruttare l'inettitudine oratoria di George Bush trasformandola in virtù elettorale ha fatto il gioco dell'avversario. La retorica formale, come sa bene il presidente eletto grazie alla sua brillantissima istruzione, è stata la pietra fondante della democrazia americana. Aspettiamoci qualcosa di grande dall'inaugurazione.
(Traduzione di Fabio Galimberti)

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