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La Columbia applaude il «suo» presidente

dal nostro inviato Eliana Di Caro

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NEW YORK - «Non ci sono bianchi e neri, latini, asiatici o indigeni: c'è un solo popolo, il popolo degli Stati Uniti d'America». Obama non si è stancato di ricordare, nell'ultimo anno, la straordinarietà del melting pot statunitense che ieri, in piccolo, era riprodotto alla Columbia University di New York.
Migliaia di studenti erano assiepati nella Low Library Plaza, incuranti del freddo tagliente, per godersi su un maxischermo l'insediamento del presidente. Facce dai tratti orientali, capelli arruffati tipicamente afroamericani, look alla moda in stile più newyorchese. Una mescolanza naturale, bella, il futuro del Paese.
In settemila, stando agli organizzatori, hanno applaudito entusiasti il "loro" presidente: proprio qui, infatti, Obama si è laureato in Scienze politiche nel 1983. E proprio qui ha mosso i primi passi verso l'impegno politico. Le attività contro l'apartheid, l'adesione alla Black Students Organization, le letture di Sant'Agostino e Nietzsche, le discussioni sull'invasione sovietica dell'Afghanistan sono parte dell'esperienza newyorchese di Obama. Un esempio per tutti gli studenti del 2009.
Megan Quinn, di Omaha, Nebraska, ha 25 anni, studia Architettura, è qui dalle 10 per assicurarsi un posto decente. «È entusiasmante, per tutti quelli che lo hanno votato e ci hanno creduto», sorride, in mano un bicchierone di caffè. E lei, ovviamente, è tra questi. Sin dalle primarie. Le aspettative sono altissime su tutti i fronti, ma a Megan interessa soprattutto il ruolo che l'America avrà in politica estera: «Spero in un nuovo corso, in cui la diplomazia prenda il sopravvento».
Le preoccupazioni di Avery Archer, che sta facendo un Phd in Filosofia, sono invece soprattutto economiche. Nato a New York, ma cresciuto in Tobago con i nonni, Avery è convinto che «gli aiuti alle banche o alle grandi aziende non abbiano l'effetto di benefici a catena. Bisogna mettere in campo strategie a favore della popolazione. Non solo della classe media, di cui si parla tanto, ma soprattutto dei working poor, quelli che hanno un lavoro regolare, eppure sono poveri».
Intanto sul maxischermo scorrono le immagini, accompagnate da ovazioni per le figlie del presidente, fischi per George W. Bush, applausi per Michelle Obama. C'è chi scatta foto, gruppetti commentano e ridono mentre gli uomini della sicurezza hanno il loro da fare per controllare la situazione.
Finalmente arriva il momento del giuramento del 44esimo presidente americano. «Certo, è giovane», osserva Huea Ong, 22enne californiana di origine malese, futuro ingegnere. «Ma si è circondato di persone di grande esperienza, a cominciare dal segretario di Stato Hillary Clinton. E la comunità internazionale sembra averlo accolto bene».
Il discorso di Obama è punteggiato da grida di giubilo e sventolii di pon pon biancazzurri, i colori della Columbia. Alla fine una ragazza, evidentemente non americana, dice a una sua amica: «Beata te, avere un presidente così». E l'altra risponde: «Beata anche tu: è una fortuna per tutto il mondo».

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