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Non basterà una bank holiday

di Luigi Zingales

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21 Gennaio 2009

Il giorno dopo il suo insediamento del 4 marzo 1933, il neoeletto presidente Franklin Delano Roosevelt proclamò una "bank holiday" in cui per quattro giorni tutte le banche furono chiuse e tutte le transazioni finanziarie sospese. Dopo, solo le banche ritenute solide da un ispettore del Tesoro poterono riaprire gli sportelli e accedere a prestiti del Tesoro stesso. Con questa misura draconiana Roosevelt ricreò la fiducia della gente nel sistema bancario americano, dando inizio al New Deal. Per fortuna, la gravità della crisi che ora dovrà fronteggiare Barack Obama non è minimamente comparabile.
Nei due anni precedenti l'insediamento di Roosevelt più di 5mila banche fallirono (senza assicurazione sui depositi) e i disoccupati sfiorarono il 25% della forza lavoro (senza sussidi di disoccupazione). Ciononostante l'esempio di Roosevelt fornisce spunti importanti per quello che Obama deve fare per risolvere la crisi finanziaria.
Innanzitutto deve agire subito in modo rapido e incisivo. Quello che dobbiamo temere maggiormente è, come diceva Roosevelt, la paura. La gente ha paura di investire in qualsiasi attività che non sia garantita dal Governo. Questa riluttanza a investire espone le imprese a crisi di liquidità che possono facilmente tradursi in fallimenti. In altre parole, il timore di investire in attività rischiose diventa una profezia autorealizzantesi, perché la paura causa le difficoltà di rifinanziamento, che portano ai fallimenti, che giustificano la paura. Per spezzare questo circolo vizioso è necessaria un'iniezione di fiducia. Ma la retorica non basta. Roosevelt non si affidò solo alla retorica, che certo non gli mancava, ma mise in piedi un meccanismo rapido ed efficace per separare le banche insolventi da quelle che potevano sopravvivere. Non si impegnò a salvarle tutte (un'opzione poco credibile ed estremamente costosa), ma accelerò il processo di selezione del mercato per uscire più rapidamente dalla crisi.
La dimensione e la complessità delle banche oggi non hanno paragone con gli anni 30. Se allora bastava una settimana per capire i bilanci delle piccole banche locali americane, oggi occorrerebbero mesi se non anni. Il Giappone ci mise tredici anni (e migliaia di miliardi di yen) per arrivare a questa soluzione. Colpito nel 1990 da una crisi creditizia non dissimile da quella corrente, solo con il ministro Heizo Takenaka nel 2003 impose ispezioni severe per far emergere le perdite. Il costo del ritardato intervento fu più di un decennio di stagnazione.
Che può fare Obama nei suoi primi cento giorni? Certo non può continuare con iniezioni di capitale. Economicamente perché è una soluzione troppo costosa (solo un mese dopo il primo investimento in Citigroup il valore della partecipazione del Governo si era dimezzato). Politicamente perché sarebbe una continuazione della politica di George Bush, che non ha certo ottenuto la fiducia della gente. L'idea di creare una banca di Stato che compri i mutui cosiddetti "tossici" non può funzionare (il costo è troppo elevato) e soffre di tutti i problemi di conflitto d'interesse e illiquidità dei titoli di cui era afflitta la proposta originaria del ministro del Tesoro Henry Paulson.
L'unica soluzione è permettere per legge alle banche di dividersi in due, concentrando tutte le attività tossiche in una entità (la banca "cattiva") e separando il resto (nella banca "buona"). Le passività originarie verrebbero poi divise pro quota nelle due entità sulla base del valore contabile delle attività allocate alle due parti, e nello stesso modo verrebbe ripartito il patrimonio netto. Ogni creditore e ogni azionista riceverebbero due titoli, uno della banca buona e uno di quella cattiva.
Sembra un puro esercizio contabile, ma non lo è. La banca cattiva diventerebbe semplicemente un fondo chiuso di mutui. Se i mutui recuperano aumenterà di valore, se perdono scenderà, ma potrà essere lasciata fallire senza alcun rimorso, perché non ci sarebbero conseguenze economiche. Se la proprietà di un fondo chiuso passa da un gruppo di investitori a un altro, non si attendono effetti macroeconomici. Così se la banca cattiva è insolvente e i creditori ne diventano i proprietari, perché dovrebbe essere un problema? Dall'altro lato la banca buona, libera dalle incertezze sul valore delle sue attività, potrebbe facilmente ricapitalizzarsi sul mercato. Anche se non ci riuscisse, sarebbe molto meno costoso per il Governo immettere capitali nelle banca buona: rischia meno perdite e per un dato obiettivo di capitalizzazione deve immettere meno capitale.
Se è così semplice, perché non è già stato fatto? Innanzitutto perché è più facile per le banche prendersi i soldi dallo Stato che ristrutturarsi. In secondo luogo, perché le clausole di molti finanziamenti obbligazionari vietano questa operazione senza il consenso dei creditori, dato che i creditori vedono aumentare il loro rischio. È proprio per questo che è necessaria una legge per autorizzare le banche a farlo. È vero che i creditori si troverebbero svantaggiati da questa manovra. Ma potrebbero essere in parte compensati con dei warrants sulla parte buona della banca. Per di più, i creditori sono stati enormemente avvantaggiati da tutti i piani di salvataggio del Tesoro. Se dovessero rimetterci un po' da questa operazione, sarebbe solo sacrosanto.
Paradossalmente, l'aspetto meno attraente di questo piano è che non costa nulla al contribuente. Questo significa che non farà contenta nessuna lobby e che deputati e senatori non riceveranno in cambio del loro voto generosi contributi dall'industria finanziaria. Ma è qui che si vedrà la vera leadership di Obama. Roosevelt non si fece certo molti amici quando chiuse migliaia di banche. Vedremo se il nuovo presidente è della stessa stoffa.

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