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Un rito festoso che parla al mondo

di Silvio Fagiolo

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21 Gennaio 2009

L'insediamento del presidente americano si ripete ogni quattro anni con la regolarità del movimento dei pianeti, per annunciare più spesso un messaggio che si vuole rivoluzionario. Non per niente il termine rivoluzione nasce nel Seicento ed è legato all'astronomia. Quest'anno l'evento si è colorato di un significato del tutto particolare. Sembra che l'intero Paese sia calato su Washington per assistere al giuramento.
I bivacchi sui prati all'ombra dei falsi templi greci simboli del potere sono stati come non mai il segno di cittadini che vogliono riappropriarsi della politica, a lungo sequestrata da una classe dirigente troppo distante dalle sue attese. La festa di Washington restituisce anche fiducia alla politica come strumento per cambiare i destini dell'uomo. Il viaggio di milioni di americani assume il carattere di un pellegrinaggio. La politica appare ora la soluzione e non il problema.
L'elemento popolare e festoso, sempre presente nelle celebrazioni patriottiche, non era stato mai così forte, al di là del rito che si rinnova sui gradini del Campidoglio. La cerimonia si è giovata anche stavolta della scelta di specifici numi tutelari della prorpia storia. Al di là del riferimento obbligato a Martin Luther King e alla lotta per i diritti civili, due nomi hanno giganteggiato, quelli dei due più grandi presidenti, del Diciannovesimo e del Ventesimo secolo: Lincoln e Roosevelt. Lincoln non è tanto quello della emancipazione dei neri. Simboleggia piuttosto la forza che la democrazia esprime attraverso le attese dell'uomo medio. È l'uomo riflesso nella poetica di "Spoon River", i sogni e le sconfitte delle persone comuni alle prese con il quotidiano. Nel film di Frank Capra "Mister Smith va a Washington" James Stewart, sommerso dal cinismo della capitale, visita di notte il Lincoln Memorial, il monumento intorno al quale hanno ruotato le celebrazioni della vigilia. Legge le parole incise sulle sue pareti ed «è come se Lincoln stesse aspettando lì soltanto lui».
La più popolare icona della pittura americana "American Gothic" di Grant Wood è custodita a Chicago, patria elettorale di Lincoln come di Obama: rappresenta la classe media, i volti parsimoniosi, i simboli di un duro lavoro. Lincoln aveva affrontato la guerra per salvare l'Unione, per superare la casa divisa. Come Obama, non era un pacifista. Ma aveva anche definito la gloria militare «affascinante arcobaleno che si leva dopo piogge di sangue, occhio di serpente che incanta per distruggere». L'America di Obama, come quella di Lincoln, è una potenza non senza peccati. Ma come nessun'altra è ora disposta a riconoscerli.
Roosevelt non ripropone soltanto il dilemma tra due sue libertà, la libertà dal bisogno e la libertà dalla paura. Incarna anche la responsibilità verso il mondo, lui che aveva dovuto mobilitare un Paese riluttante a combattere la tirannide su due fronti, asiatico ed europeo. Obama, meglio del suo predecessore, saprà leggere fra le pieghe della storia contemporanea, dei suoi segreti, dei suoi cammini non più lineari. Questa volta il messaggio dalla collina è risuonato come un messaggio "Urbi et Orbi". Lo hanno reso tale non solo la tecnologia, che consente di abbracciare spazialità fisiche e temporali diverse in un'unica rete globale. Non solo l'attesa febbrile del pianeta. Soprattutto la circostanza che la vocazione universale del messaggio americano, presente sin dalla nascita del Paese, abbia trovato solo ieri la persona in grado di esprimerla compiutamente senza distinzioni di razze e di continenti.

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