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Bombe sugli hotel di lusso, «simbolo del nuovo colonialismo»

di Chiara Beghelli

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17 luglio 2009


Può il denaro comprare la sicurezza? Può un hotel che vanta cinque stelle essere meno sicuro di uno che ne ha solo due? Con gli attentati di Jakarta ancora un volta gli alberghi di solito più ambiti rivelano il loro fianco scoperto, la loro vulnerabilità. E la lista degli ospiti che una volta entrati non ne escono più purtroppo si allunga, anno dopo anno: prima di quello di oggi, l'ultimo attacco terroristico del genere risale al 9 giugno scorso, quando alcuni kamikaze si sono fatti esplodere al Pearl Continental Hotel di Peshawar, in Pakistan, uccidendo undici ospiti di uno degli hotel più belli della città. Nel 2008, a gennaio un gruppo di talebani lanciò delle granate nella palestra dell'hotel Serena di Kabul per potervi entrare e uccidere sei persone. Il 15 marzo un'autobomba esplose nel parcheggio dell'hotel Cs di Pattani, in Thailandia, uccidendo due persone. Poi a settembre ci furono i 60 morti del Marriott di Islambad, e a novembre è stata la volta degli attacchi simultanei di Mumbai, che colpirono due hotel simbolo della città, il Taj Palace e l'Oberoi. 50 persone furono prese in ostaggio, 80 furono uccise.

Ad accomunare questi attentati non è solo la matrice estremista di chi li organizza, ma anche la natura di questi hotel: non si tratta di "small luxury hotel", o hotel "di charme", come si dice, ma di strutture che fanno parte di grandi catene a capitale per lo più estero (i Marriott e il Ritz sono statunitensi) o che appartengono a magnati, anche locali (i Taj fanno capo al signore indiano dell'acciaio Ratan Tata, i Serena al Develompment Fund di Karim Aga Khan IV) e soprattutto sono oasi per gli stranieri, case per funzionari, uomini d'affari, persino sedi di ambasciate, come nel caso del Serena di Kabul dove si trovava la delegazione australiana in Afghanistan. Ma c'è un altro tratto che si potrebbe definire "culturale": chi è stato in un Hilton o in un Marriott, in qualsiasi parte del mondo, sa che vi troverà gli stessi standard, la stessa atmosfera, a volte persino le stesse architetture. Una sorta di omogeneità pensata apposta per far sentire a casa chi viaggia spesso per lavoro e preferisce tratti riconoscibili, e pertanto rassicuranti, piuttosto che una full immersion nelle peculiarità del paese in cui si trova. Magari non per un viaggio, ma per tre giorni di meeting.

Pertanto, colpire questi hotel significa contrastare anche quello che viene giudicato un nuovo "colonialismo occidentale", una nuova standardizzazione. E per difendersi da queste intenzioni a volte non serve, come hanno fatto molti hotel di lusso negli ultimi anni, costruire ampi spazi di fronte agli ingressi, monitorare chi entra e chi esce con sistemi di metal detecting degni di un aeroporto internazionale (come al Grand Hyatt di Jakarta)e vietare il parcheggio nelle aree antistanti o vicine. Nel 2007 Forbes pubblicò un decalogo per la sicurezza dei viaggiatori business, ammonendo di lasciar perdere l'aria "smart and easy" che li rende così riconoscibili e pertanto, in alcuni casi, così vulnerabili. Niente paura, insomma. Ma bisogna essere consapevoli che una costosa superior room non è necessariamente il posto più sicuro del mondo.

17 luglio 2009
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