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COMMENTO / Rischio Vietnam per la Nato senza exit strategy

di Paolo Migliavacca

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17 settembre 2009

Era nell'aria, un attentato di grosse dimensioni contro le nostre truppe in Afghanistan. Da mesi i Taliban vanno conducendo un'offensiva sempre più efficace - condotta a base di Ied (Improvised explosive device), ordigni artigianali sempre più potenti o di autobombe guidate da "martiri" suicidi - contro i circa 65mila uomini dell'Isaf (il corpo d'intervento militare guidato dalla Nato). Questa offensiva si è accentuata in vista delle elezioni presidenziali di fine agosto.

Un po' tutti i contingenti ne sono stati colpiti, dapprima e più duramente le forze britanniche, poi hanno subito perdite anche danesi, spagnoli e canadesi (oltre naturalmente agli Usa), mentre i 2.800 uomini del contingente italiano erano finora sfuggiti fortunosamente a molti attacchi, con l'eccezione della perdita del 25enne caporalmaggiore Alessandro Di Lisio, caduto il 14 luglio scorso. Logico quindi che prima o poi, per la legge dei grandi numeri, anche alle nostre truppe non bastasse più la protezione della sorte.

Ma gli effetti dell'attentato di Kabul quasi certamente andranno ben oltre il pur tragico bilancio di vite umane spezzate o mutilate nella carne. Torna infatti in gioco la presenza stessa in Afghanistan del nostro contingente: «Secondo me è prematuro, ma bisogna iniziare a pensare a come uscirne- ha detto a caldo, dopo l'attentato, il presidente della commissione Esteri della Camera, il leghista Stefano Stefani, riprendendo la posizione espressa alcune settimane or sono di Umberto Bossi - Non da soli, perchè noi siamo alleati fedeli della Nato: però, insieme alla comunitá internazionale e alla Nato bisogna studiare una exit strategy: come, quando, quanto tempo ancora dobbiamo restare lì? Si affronti il problema tutti insieme». Perché la exit strategy è lo sbocco inevitabile cui sta apertamente pensando l'amministrazione Obama fin dal suo insediamento, nonostante il rapido rafforzamento effettuato in vista delle citate elezioni di agosto.

L'idea è che il nuovo comandante Usa, il generale Stanley McChrystal, sotto la supervisione dell'ormai celebre collega David Petraeus, ripeta il successo ottenuto in Irak: forte aumento delle truppe per due o tre anni al fine di riprendere il controllo del territorio perduto, strategia che preveda una mano tesa verso le frange ribelli più "morbide", nel tentativo di divedere le forze ribelli e, una volta realizzato il parallelo rafforzamento dei costituendi esercito e polizia locali, avvio del ritiro delle forze occidentali.

L'aumento esponenziale delle perdite Isaf fa però temere un tracollo di questo piano. Già il governo Brown, di fronte all'impennata di vittime degli ultimi mesi, ha apertamente iniziato a discutere di un rapido e unilaterare ritiro britannico. Stessa cosa, più sottotraccia, accade nel Canada del premier Stephen Harper e, probabilmente, ora avverrà anche da noi. Senza dimenticare, soprattutto, che una parte crescente del partito democratico americano, con alla testa John Kerry, si sta ponendo le stesse domande.

Per gli Usa è dominante l'incubo d'impantanarsi in un altro Vietnam. I 65mila uomini attuali dell'Isaf (di cui metà americani) non sono assolutamente sufficienti alla bisogna. Secondo quanto ha rifertito proprio ieri al Comitato del Senato Usa per la politica estera il tenente colonnello John Nagl della riserva, occorre come minimo un soldato addestrato per ogni 50 cittadini da proteggere/controllare. In Afghanistan ciò significherebbe 600mila uomini, ben più di quanti ne furono inviati a Saigon nel culmine della guerra vietnamita. Anche ritenendo che le forze afghane in addestramento (400mila l'ambizioso obiettivo per il 2015) siano sufficienti per numero e qualità, resta sempre un gap di forze e di tempo che difficilmente un'Amministrazione Usa, specie democratica, pare in grado di colmare.

Che fare dunque?
La missione Isaf risulta stretta tra l'incudine delle perdite crescenti (cui occorre rispondere sul campo e in sede politica, trattando con i Taleban "di buona volontà", se esistono) e il martello di una volontà politica vacillante. Non basta infatti invocare una "exit strategy" per calmare opinioni pubbliche interne sempre più insofferenti all'aumento delle vittime; ma occorre anche indicare prospettive temporali precise per poter richiedere ulteriori sforzi in uomini e mezzi (ahimè entrambi assai costosi, per versi ovviamente differenti). Insomma, una sorta di quadratura del cerchio.

È su questa crepa inevitabile che la lucida strategia Taliban si è inserita e su cui rischia di avere successo. Nervi saldi, volontà politica coesa, nell'ambito dell'alleanza e all'interno di ogni paese membro, e dotazioni sempre più adeguate per qualità e quantità appiono l'unica medicina prescrivibile sulla carta. Ma i medici chiamati a somministrarla devono essere all'altezza. E, se non lo sono, come sempre più spesso appare evidente, occorre cambiarli.

Sito Isaf
http://www.nato.int/ISAF/

17 settembre 2009
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