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Blair è l'uomo sbagliato per la presidenza Ue

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29 ottobre 2009

Lui (stiamo parlando di Blair) cercherà di conquistare la poltrona di presidente del Consiglio europeo oppure no? E loro (stiamo parlando dei suoi ex colleghi nel Consiglio, i 27 capi di Governo che compongono questo ristretto corpo elettorale) lo vorranno in quell'incarico oppure no?

Con il Trattato di Lisbona in dirittura d'arrivo, questi interrogativi sono usciti dai giochetti dell'Eurosalotto e sono entrati di prepotenza nel dibattito pubblico. La risposta non è facile come potrebbe apparire sulle prime.

Per cominciare, non esiste – ancora – un reale consenso sulle effettive attribuzioni del presidente del Consiglio europeo, ma tutti sanno che sarà il primo a ricoprirlo che ne definirà il ruolo.

È davvero una posizione che richiede qualità da star? Ci vuole davvero uno – come ha detto il ministro degli Esteri britannico David Miliband, perorando la causa di Blair – che sia capace di fermare il traffico a Washington e a Pechino, a Mosca e a Nuova Delhi?

È tutt'altro che scontato che i leader Ue, nella loro vanità, accettino di lasciarsi mettere in ombra da una primadonna di questo genere. Forse preferiranno un personaggio che si attenga pazientemente al programma (o ai 27 programmi) e lavori per costruire quel tipo di confuso consenso che tiene faticosamente in piedi l'Unione. L'imperscrutabile trattato di Lisbona si dilunga su questo punto, ma è irritualmente stringato sul ruolo di rappresentanza.

Ma se è la notorietà globale che vuole l'Ue, Blair certamente può fare al caso suo. Nei dieci anni trascorsi al vertice della politica britannica e internazionale, l'ex premier è stato effettivamente una stella, anche di un firmamento abbastanza fioco. È un argomento accattivante quello di chi sostiene che con il suo mix di conoscenze e charme e il suo stile schietto e diretto Blair consentirebbe all'Ue, finalmente, di pesare sulla scena internazionale per quel che vale.

L'Europa ha bisogno di una voce più convincente se non vuole scivolare nell'irrilevanza geopolitica, in un mondo spartito fra Stati Uniti e Cina. E anche se l'altro ruolo importante creato dal Trattato di Lisbona, quello del capo della politica estera, potrebbe rivelarsi di maggior peso, è tutto da dimostrare che esistano valide alternative alla candidatura di Blair a presidente del Consiglio europeo.

Le obiezioni all'ex primo ministro inglese non nascono – come vorrebbero i Tories – dal fatto che la sua nomina sarebbe vista come un affronto alle sensibilità di Oltremanica. William Hague, ministro degli Esteri ombra ed ex leader del Partito conservatore, dice che se Blair venisse nominato presidente loro lo considererebbero un atto «ostile». Sembra che confonda Bruxelles con il Cremlino del 1980. David Cameron ha adottato un tono più misurato – e lievemente beffardo – dicendo che un futuro governo tory potrebbe lavorare con il presidente, come l'ha definito Cameron stesso in italiano.
No, sono altre le ragioni che sconsigliano di nominare Tony Blair.

La follia dell'Iraq, una guerra non necessaria, sostenuta sulla base di affermazioni false, pesa come un macigno. Oltre al fatto che quell'invasione, compiuta in assenza di provocazioni, ha causato la frattura dell'Iraq come Stato e come società, dando impulso al jihadismo in tutto il Medio Oriente, c'è il fatto che Blair, subordinando il Regno Unito all'incompetente avventurismo dell'amministrazione Bush, non cercò di raggiungere un accordo con i suoi partner europei, dando un grosso contributo alla divisione dell'Unione.

Ma oltre alle macerie della catastrofe irachena, Blair ha gettato al vento un'opportunità storica per integrare la Gran Bretagna in Europa e modificare la visione dell'Europa Oltremanica. In un momento in cui i britannici della sua generazione sentivano una familiarità e una dimestichezza con i loro vicini europei che non aveva precedenti, e in un momento in cui tantissimi temi nell'Ue andavano nella direzione più gradita ai britannici, Blair abbandonò qualunque tentativo di convincere l'opinione pubblica interna, rinuncio perfino a perorare la causa pragmatica della condivisione di una piccola porzione della sovranità inglese, preferendo capitolare di fronte ai media euroscettici e sciovinisti. Al momento di lasciare Downing Street, accusò la stampa di aver costretto i dirigenti del Paese a schierarsi nel falso dilemma pro o contro l'Europa: «o isolamento o tradimento». Ma dieci anni fa, dopo la sua travolgente vittoria elettorale, avrebbe potuto attraversare il Canale della Manica a piedi. Leader vuol dire uno che guida, ed è questo che avrebbe dovuto fare.

Inoltre, il potere carismatico che i suoi supporter gli attribuiscono non tiene conto del fatto che l'Ue è più una questione di chimica che di cosmologia. Esige una particolare inclinazione a creare compromessi e un'approfondita conoscenza delle tensioni interne fra Stati grandi e Stati piccoli, fra Nord e Sud e, sempre di più, fra Est e Ovest, e la capacità di tener conto delle suscettibilità dei tre grandi (Francia, Germania e Gran Bretagna). Blair, per istinto, potrebbe essere troppo incline a favorire gli Stati grandi per poter rappresentare un elemento di unità nell'Unione.

  CONTINUA ...»

29 ottobre 2009
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