Quattordici mesi di lavoro duro, sovente nel tunnel circolare a cento metri di profondità che inanella la valle di Ginevra e fa capo al Cern.
53 grandi magneti da riportare in superficie con le gru, 37 sostituiti completamente, cinque chilometri di tubi a vuoto assoluto cambiati, migliaia di sensori e valvole nuove. E una squadra di una quarantina di fisici al lavoro, in una sorta di lotta sotterranea contro il tempo.
Ora però, da qualche giorno, il grande Lhc (Large Hadron Collider), ha ripreso a funzionare, da quel 19 settembre del 2008, quando una connessione difettosa a 13mila Ampere (l'energia di qualche migliaio di case) saltò, facendo esplodere l'elio liquido e, a catena, un buon tratto dell'anello. Oggi però l'Lhc superconduttivo di 27 chilometri incrocia i suoi fasci protonici, e genera le prime collisioni. E, a regime, spaccherà la particella di materia più dura conosciuta (il protone), rivelandone i suoi costituenti (fino a mostrare, forse, il segreto della gravità).

«Per ora stiamo andando a energia minima – spiega Lucio Rossi, responsabile dell'anello dei magneti superconduttori e leader della squadra di riparazione – al di sotto del mezzo Tev (meno di 500 miliardi di elettronvolt). Le collisioni che stiamo ottenendo sono a bassa velocità e servono, al più, ai nostri colleghi fisici per la calibrazione dei rivelatori (quattro nell'anello, Atlas, Cms, Alice e Lhcb, i primi due sulla frantumazione dei protoni e gli altri su altre particelle elementari). Finalmente loro possono lavorare, dopo mesi di attesa. Poi, piano piano, saliremo di energia, fino ad ottenere, verso febbraio dell'anno prossimo il regime pieno di collisioni a 7 Tev, ovvero su due fasci di particelle lanciati uno contro l'altro a 3,5 Tev». In pratica alla velocità della luce, migliaia di miliardi di elettronvolt capaci di esplodere l'uno conto l'altro due singoli protoni nei frammenti più minuscoli possibili, fino a quelle (supposte) evanescenti particelle chiamate Bosoni di Higgs, predette in teoria ma mai osservate, che dovrebbero confermare il modello standard della fisica attuale, oppure, in caso diverso, persino spalancare le porte a nuove domande, oppure ancora a nuove teorie universali come la supersimmetria.

Questo però a febbraio, se tutto andrà bene: «Abbiamo perso 14 mesi, mentre la rete mondiale dei fisici aspettava il nostro ritorno in vita. Intanto il Fermilab di Chicago ha continuato a lavorare a 1 Tev, quindi con collisioni a 2 tev. Rischiavamo di perdere il treno della nuova fisica. Per questo, appena abbiamo potuto, siamo ripartiti subito – continua Rossi – anche se l'elettricità nei mesi invernali è per noi più cara. E abbiamo messo già in conto 10 milioni di euro di bolletta aggiuntiva, per queste 12 settimane di ripartenza fuori stagione (l'estate, quando la Francia nucleare fornisce al Cern i Tev a costi ribassati, gli anelli solitamente si accedono). «Ma ne vale la pena – continua Rossi - Vogliamo essere pronti, e a febbraio a sorpassare la soglia dei 2 tev, quindi entrare in quel mondo sconosciuto delle altissime energie da cui ci aspettiamo risposte, o forse nuove sorprese».

Intanto la squadra di Rossi ha lavorato con cura. «Il problema di fondo è che la superconduttività è una cosa bellissima (ti permette di incanalare enormi energie senza perdite di corrente) ma è uno stato instabile. In ogni istante puoi avere uno quench, una transizione di stato improvvisa da superconduttività a conduttività normale, con conseguente surriscaldamento dei componenti nell'anello. Per questo abbiamo istallato oltre seimila sensori per un ulteriore sistema di protezione, capace di agire al primo superamento di soglia elettromagnetica, nell'ordine dei dieci millisecondi. Ci vogliono infatti cinquecento millisecondi per spegnere i magneti, in caso di transizione improvvisa. Ma quelli che contano sono i primi dieci perché non si ripetano danni e si blocchi la corrente. Oggi il nostro nuovo sistema di protezione è talmente sensibile che tende a scattare per un nonnulla, per un qualsiasi rumore elettrico. E lo stiamo attentamente calibrando, prima di salire di potenza. E intanto controlliamo anche quella metà dell'anello che abbiamo verificato solo a campione, non essendo l'epicentro del guasto di 14 mesi fa».

Rossi, da buon fisico sperimentale, non esclude la possibilità di nuovi guai. «Ma ora cominciamo ad essere ragionevolmente certi che l'errore del settembre 2008 non si ripeterà. Abbiamo inserito anche valvole per controllare eventuali fuoriuscite di elio (che in criogenia è liquido, ma senza energia passa subito a stato gassoso espandendosi, fino a spaccare i tubi metallici molto spessi) senza rischiare ulteriori fessurazioni dei tubi e magneti».
A febbraio, quindi, L'Lhc dovrebbe entrare nel suo ignoto sperimentale. E miliardi di dati di collisioni verranno immesse sulla sua rete (grid) che connette L'Lhc alla rete mondiale dei centri di ricerca in fisica. «Il punto non è solo l'energia a cui arriveremo ma anche la luminosità, ovvero il numero di eventi utili e osservabili accumulati. Anche se hai un cannocchiale sette volte più potente di quello del Fermilab di Chicago te ne fai poco se osservi le stelle solo per pochi minuti, mentre magari il tuo rivale ci sta sopra da un anno. Ci vorranno con ogni probabilità, mesi e mesi di eventi, e di analisi, per cominciare a vedere qualcosa. Ma forse poi sarà stupefacente».

Per ora il telescopio Lhc è acceso, è andato oltre la sua tecnologia iniziale (già estrema) e sta puntando sull'obbiettivo. Ma niente miracoli scientifici a breve in arrivo dal Cern. E i primi a dirlo sono proprio quelli che ci stanno lavorando.