Come sfamare i 9,3 miliardi di esseri umani che a metà secolo busseranno a cibo? Ovviamente potenziando la produzione alimentare, soprattutto nei paesi in cui la pressione demografica continuerà a salire a tassi eccessivi, specie se rapportati all'effettiva disponibilità di terre fertili. E alla condizione-capestro di mantenere livelli elevati di spesa in campo agricolo: cosa che, complice la crisi economica mondiale e i tagli degli aiuti del mondo ricco, da un decennio è venuta meno.
Ma la medaglia ha pure un lato positivo. Stanno diminuendo i timori che il mondo sia avviato a un'inesorabile catastrofe demografica e, quindi, alimentare: il tasso di fertilità – il numero medio di bambini che una donna partorisce durante il periodo fecondo della sua vita – è in calo. Secondo la Population Division dell'Onu, per quasi metà della popolazione mondiale (2,9 miliardi su 6,5 totali) nel periodo 2000-2005 esso è sceso a 2,1, numero ormai vicino a quel magico "2" ritenuto ideale dai demografi poichè garantisce nel tempo l'equilibrio tra nascite e decessi. Sempre secondo l'Onu, nel 2010 in quella condizione saranno 3,4 miliardi di persone su 7, per superare il fatidico 50% entro la metà del prossimo decennio.
Ma non basta. Le cose vanno meglio anche in molti paesi finora ritenuti più "difficili", quelli con un numero assai elevato di figli per donna e che hanno già raggiunto densità abitative proibitive rispetto alla superficie disponibile e, spesso, alla quantità di terreni agricoli. Alcuni esempi: in Bangladesh (156 milioni di abitanti su 144mila km², oltre mille persone per km²!), afflitto quasi annualmente da bibliche inondazioni e carestie, il tasso di fertilità si è più che dimezzato (da 6,1 a 2,74) dal 1973 a oggi. In Indonesia (240 milioni di abitanti) il calo è stato da 5,6 a 2,3, nelle Filippine (98 milioni) da 6 a 3,27. Per alcuni, sorprendentemente, è già scattato il livello a rischio "meno di 2", che segnala cioè in prospettiva l'entrata nella denatalità: in Vietnam (87 milioni attualmente) il rapporto è crollato da 5,3 a 1,83, in Iran (66 milioni) da 6,4 nel 1975 a 1,71 in Thailandia (66 milioni) addirittura da 6,2 nel 1969 a 1,65.
Anche valutando la situazione in termini di macro-regioni i progessi sono cospicui: nel Sud-Est asiatico (oggi ricco di ben 490 milioni di abitanti) il tasso di natalità è sceso da 5,6 a 2,3 nati per donna, in Africa centrale da 7 a 5,4, quella meridionale ha dimezzato il tasso da 5,6 a 2,8.
Infine, pure la situazione dei due giganti demografici (Cina e India) va nettamente meglio. Il primo, secondo le stime per il 2009 del Population Reference Bureau dell'Onu, passerà da 1.331 a 1.437 milioni entro il 2050; ma la cosiddetta "politica del figlio unico" ha fatto crollare le nascite sotto il limite di rischio (1,79), ponendo crescenti dubbi su come potrà reggersi un paese composto di vegliardi a metà secolo. Per l'India le stime indicano una crescita assoluta ancora vigorosa (dagli attuali 1.171 a 1.748 milioni entro il 2050), con un tasso di fertilità sceso però da 4,9 a 2,7.
Trascurando gli strumenti prescelti per limitare il boom demografico (spesso molto discutibili sul piano etico, dalle sterilizzazioni di massa, a volte inconsapevoli, avvenute in India, all'aborto pressochè senza regole), resta il fatto che il traguardo di una demografia sotto controllo appare a portata di mano. Anzi, per intere regioni (dall'Europa, specie orientale, al Giappone e alla Corea) si pone invece con urgenza il problema opposto: tornare a incentivare le nascite per impedire che nazioni senescenti presto diventino un peso insopportabile per l'intera umanità.