CHINYAMA. Dal nostro inviato
Come spieghereste a Silota Maliseny che nel 2008 il Malawi, il suo paese, ha avuto una crescita economica seconda al mondo solo al Qatar? Silota non è mai stato a Lilongwe, 50 chilometri a nord del villaggio di cui è sindaco: probabilmente non conosce il Qatar. Lui e i contadini di Chinyama continuano a non mangiare più di una volta al giorno. E le statistiche economiche sono statistiche: come Bob Kennedy diceva per il Pil, misurano «tutto eccetto ciò che rende la vita veramente degna di essere vissuta».
Eppure è vero. «Le cose vanno meglio, è da un po' che qui non muore di fame nessuno», constata Silota. Il Malawi cresce dell'8,3% e sfama la sua gente con più successo di prima. Il vertice sulla sicurezza alimentare che si apre domani a Roma sarà un'altra Waterloo globale per l'inconsistenza degli organismi multilaterali, l'egoismo dei paesi donatori, la mediocrità dei governi che ricevono gli aiuti. Non si salva nessuno. L'obiettivo fissato nel 1997 di ridurre della metà gli affamati entro il 2015 è fallito. Erano un miliardo allora, sono 105 milioni di più oggi. Per avere successo, la Fao dovrà sancire una sconfitta: spostare l'obiettivo al 2025 e ottenere altri fondi dai paesi donatori, non meno di 14 miliardi di dollari.
Ma nel buio dell'ultimo rapporto Fao, il Malawi appare come una luce. Con il Ghana è l'unico paese africano dove gli affamati non crescono, addirittura diminuiscono. «È qualcosa di straordinario se pensa che la crescita media nell'Africa meridionale è solo del 3%», commentava a Lilongwe il ministro delle Finanze, Goodal Gondwe. «Abbiamo ridotto dal 60 al 45% la gente che vive sotto la soglia di povertà» di 60 kwacha, circa 50 centesimi di dollaro al giorno. Fra i 12 milioni di malawiani anche coloro che rischiano ogni giorno di morire sono calati a meno di tre milioni. Poco più di quattro anni fa il Malawi affrontava una nuova emergenza alimentare: la produzione di mais era di 1,25 milioni di tonnellate, circa 2 milioni meno del necessario per restare al di sopra del livello di sussistenza. L'anno dopo il deficit si era trasformato in un surplus di mezzo milione di tonnellate, poi di un milione. Quest'anno e il prossimo la produzione in eccesso dovrebbe essere di 1,5 milioni di tonnellate. Perché un paese africano che stava per avere un altro milione e mezzo di affamati, d'improvviso è diventato un esportatore di mais (321mila tonnellate allo Zimbabwe) e perfino un donatore (a Lesotho e Swaziland)? Perché il caso Malawi che sembrava insolubile ha spinto Jeffrey Sachs ad affermare che «una rivoluzione verde in Africa è possibile, dopo tutto»?
«I sussidi: diamo ai contadini più poveri due sacchi di fertilizzante e uno di semi a prezzi finanziati», risponde semplicemente Edward Daudi, sapendo con questo di far venire l'orticaria alla Banca Mondiale, al Fondo monetario, a un esercito di economisti, di esperti e sottosegretari occidentali incaricati delle questioni per lo sviluppo. «Un sacco da 50 chili di fertilizzanti costa 5mila kwacha, noi li distribuiamo a 500», circa quattro dollari. Primo burocrate al ministero, qui Daudi è mister Agricoltura: stabilisce i progetti a breve e i piani a lungo termine, guida i dipartimenti e tratta con i donatori. «Al primo incontro, quando abbiamo spiegato il nostro piano di sussidi, i donatori erano contrari. Abbiamo dovuto imporlo. Poi hanno visto i risultati e ora sono d'accordo», spiega Daudi. Il Malawi non è mai stato un paese socialista. Negli anni della Guerra fredda, il dittatore Hastings Banda era un anziano della Chiesa di Scozia e impediva ai giovani di portare i capelli lunghi. Il presidente di oggi, Bingu Wa Mutharika, è stato appena rieletto al secondo mandato in un processo molto democratico per i canoni africani. Il problema è che ai tempi dell'aggiustamento strutturale imposto dai donatori lo Stato doveva ridurre il suo ruolo a favore del mercato. Ma in Malawi i soggetti del mercato non c'erano.
Il 70% degli agricoltori possiede meno di un ettaro e garantisce l'80% della produzione. Si passava da una carestia all'altra, adesso che sono tornate le sovvenzioni no. Mafa Chipeta, rappresentante Fao all'Unione europea, ricorda che «se il mondo sviluppato può sussidiare milioni di agricoltori per 50mila dollari ciascuno, perché l'Africa non dovrebbe darne 100 ai suoi?». Il Malawi ne dà molti di meno e più degli altri africani dedica all'agricoltura il 16% del bilancio statale, contro il 10% stabilito dalla conferenza di Maputo del 2003. Il suo problema è la sostenibilità: il paese dipende al 40% dai donatori, la sua agricoltura al 50. «Ma se le chiedo di scegliere fra il cibo e la fame, lei cosa sceglie?», chiede Andrew Daudi.
Silota Maliseny, il sindaco di Chinyama e i suoi 500 concittadini scelgono il primo. Qui è in corso un progetto per sviluppare la coltivazione di cassava, ricca di carboidrati, un'alternativa più resistente al mais. Finanzia il governo italiano, 750mila dollari; ora a Chinyama si aspettano che noi gli costruiamo anche un mulino per fare farina di cassava e vendere il loro surplus.
Ma è il mais il cibo del Malawi col quale la gente fa il msima, una polenta consistente: mais e verdura, mais e pollo, mais e carne, quando c'è. Altrimenti solo mais. «È vero che i sussidi non sono sostenibili, che bisogna diversificare l'agricoltura per ridurre la malnutrizione», dice Ruth Ayoade che per la Fao si occupa della sostenibilità dei progetti. «Ma il mais è il prodotto chiave: non c'è sicurezza alimentare senza mais».
Nel suo ufficio di Capital Hill costruito dai sudafricani, Andrew Daudi pensa a un futuro grandioso. «Fra 10 anni questo sarà un posto migliore dove vivere, raddoppieremo, triplicheremo i raccolti. La sicurezza alimentare sarà il passato, il mais sarà il nostro petrolio». Come i sauditi per il greggio, il governo ha deciso di bloccarne le esportazioni per creare una riserva strategica; e come la benzina a Riad, il prezzo lo fissa lo Stato.
Cinque anni fa il Malawi viveva ossessionato da tre minacce: fame, Aids e governance. Ora c'è meno fame, il numero dei sieropositivi è stabilizzato al 12% della popolazione, il governo governa. Il presidente Bingu ha deciso di dedicare il suo ultimo mandato alla Cintura Verde, il progetto che moltiplicherà l'attuale 2% di terre irrigate. Se ci saranno i soldi. È solo un inizio. Nella lotta alla sostenibilità alimentare il villaggio di Chinyama e il resto del Malawi sono la frontiera tra stato e mercato: dove le debolezze del primo possono soffocare le potenzialità del secondo e dove le avidità che provoca il mercato possono affamare società inadeguate. Anche i donatori, così scettici sui sussidi, ammettono che è più dignitoso spendere i soldi così che distribuire cibo durante una carestia. Poi, "a lungo termine", si vedrà.
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