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A Gozo, a caccia dell'ossigeno puro

di Gianluigi Ricuperati

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21 novembre 2009


Un pomeriggio, in gran segreto, avevo sostenuto l'esame pratico di Ossigeno. Era andato bene, non ci speravo più: era la fine di agosto. Gli altri esami, quelli di mia madre, avevano mostrato una caduta verticale.
Il titolare della Scuola aveva detto fin dalla prima lezione che per noi Ossigeno era un modo di dire - un compromesso trovato con gli umani. «I vampiri succhiano il sangue perché lì c'è ossigeno, potreste vietare a un animale di respirare?», diceva la prima riga del Manuale Teorico all'Esame di Ossigeno, riportando le storiche parole dei legislatori che avevano trovato in questa idea una giustificazione biologica e filosofica ai nostri raid notturni, ai nostri continui omicidi preterintenzionali, al nostro incessante abisso. Ora le cose erano cambiate. Ma sostenere l'esame di Ossigeno significava diventare adulti, indipendenti, iniziare a provvedere a se stessi: quando muore qualcuno, qualche umano, ci sono pochissimi minuti per sfilargli via tutti i litri di sangue senza farlo inacidire, preservando le qualità organolettiche e nutritive.

Ero tornato da un lungo viaggio in Europa, da nord a sud, che nel culmine dell'estate aveva raggiunto l'isola di Malta, dove mi ero fermato un paio di giorni. Vagabondavo. Mia sorella era interamente dedicata alla cura quotidiana della mamma. Aveva lasciato il suo appartamento di via Sottsass e si era rimessa a dormire nel letto di mia madre, insieme a lei, lo stesso in cui da ragazzino mi infilavo quando avevo paura, ben prima della notte in cui sarei diventato vampiro. Avevo sempre considerato mia sorella una seconda madre. Ero l'unico vampiro della mia famiglia, e non era stato facile. Quando mi hanno telefonato al cellulare ero sotto il sole di Gozo, circondato da pallidi europei che mi facevano anche gola, e venivano qui a imparare l'inglese senza sorbirsi le piogge e la Gran Bretagna. A dire il vero ero preoccupato, per noi un luogo poco popolato è un rischio di fame, sete e terrore, ma avevo imparato a resistere, e non c'era altra scelta. Era il titolare della Scuola di Ossigeno a chiamarmi - lo stesso che prima di partire mi aveva detto che secondo una norma di legge non avrei potuto sostenere l'esame prima di una certa data in virtù della sequenza di bocciature che avevo accumulato. Ero un disastro, con Ossigeno. Aveva parlato in modo secco e convincente. Si chiamava D'Andrea, era un vampiro dur, alto 1,65, portava la barba lunga, parlava in una chiave di falsetto, non dimenticherò mai il timbro della sua voce: «Se non viene a sostenere l'esame sono sicuro che sarà uno sbaglio grosso. Non ci sono molti altri modi per noi di essere accettati e sperare di vivere una vita normale. Spero che se ne renda conto».

Così salii su un velivolo Air Malta diretto a Roma. L'esame andò liscio, e alle sette della sera stringevo fra le dita la porosa patente con il nome, il cognome e la fotografia vuota. A casa, mia madre e mia sorella, entrambe nella stanza da letto. Entrai spalancando la porta. Ricordo l'abbraccio di mia sorella, mia madre immobile con la sua vestaglia. Non dissi niente, tirai fuori il documento rosa per sventolarlo all'aria. Mia sorella si aprì in un sorriso. Mia madre continuava a restare in silenzio e senza accennare al più breve movimento. La raggiunsi io, l'abbracciai, lei pronunciò il mio nome come un sibilo d'insoddisfazione, ma forse era solo un attacco di dolore alla pancia, perché si sedette, mi tese la mano per avere la patente e guardarla bene, assicurarsi che fossi io, assicurarsi che fosse vero, e all'improvviso vomitò un liquido scuro sulla mia mano, sulla patente fresca, sull'orlo del copriletto e sull'angolo dei miei jeans. Poi cominciò a urlare: «Non posso, non posso continuare. E tu sì. Non lo sopporto, non lo sopporto. Non ti sopporto. Guarda cosa sei diventato. Perché devi vivere tu e non io?».

Un minuto dopo ero in bagno, nudo, il mucchio di vestiti ammonticchiati sul pavimento, l'odore di nausea sulle fibre e nell'aria: la patente macchiata sul bordo del lavabo. Era solo uno dei primi istanti, ne sarebbero seguiti milioni, ancora. Ero ancora un bambino, in un certo senso, se ne sarebbe accorto chiunque dal modo in cui piangevo. Quel che non sopportavo, e che avrei dovuto sopportare per sempre, era l'incapacità di capire mia madre, e tutti gli altri, il suo rancore di abbandonare la vita, e quello di tutti gli altri. La membrana che aveva preso il posto del mio cervello non la capiva. I miei occhi tristi non la capiscono, pensai: continuerò per l'eternità, senza capire.

21 novembre 2009
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