Le proposte non mancano. Oltre ai due testi ufficiali sul tavolo delle trattative, al vertice climatico di Copenhagen, c'è quello di Tuvalu, quello di Aosis (l'associazione degli Stati-isola come la stessa Tuvalu) e, adesso anche quello degli Stati africani. I paesi più a rischio per i futuri effetti del cambiamento climatico – dalle isole che rischiano di sparire, al Continente nero che rischia siccità e scarsità di cibo – sono anche quelli che chiedono di più.
La proposta africana ad esempio, oltre a richiedere ai paesi ricchi di tagliare le loro emissioni «in rapporto alle loro responsabilità storiche», propone anche un obiettivo ambizioso: «le nazioni sviluppate dovranno cambiare le loro abitudini più insostenibili, dal punto di vista della produzione e dei consumi». Vista con gli occhi dell'Africa, dove la produzione scarseggia e i consumi sono frenati dalla povertà, la richiesta non è peregrina. Ma con gli occhiali altrui, è pressoché impossibile da realizzare.
«Il destino del mio paese è nelle vostre mani, vi scongiuro di fare qualcosa», ha detto Ian Fry, delegato di Tuvalu, durante l'assemblea plenaria. E lo diceva mentre piangeva, per citare una famosa canzone di Celentano. «Mi sono svegliato stamattina che stavo piangendo – ha aggiunto con la voce strozzata – non è facile ammetterlo, per un uomo adulto».
I negoziati del più importante vertice climatico Onu di tutti i tempi, sono ormai arrivati a metà strada. Fra mercoledì e giovedì, oltre 105 capi di Stato e di governo sfileranno davanti al microfono dell'assemblea, per esprimere la propria posizione. Il presidente messicano Felipe Calderon ha appena detto la sua: «Siamo pronti a tagliare le emissioni del 30% entro il 2020 con le nostre gambe – ha detto – ma ci attendiamo fondi e trasferimenti tecnologici da parte dei paesi ricchi».
La regola del «do ut des» – così vitale in diplomazia – a Copenhagen diventa fondamentali. Così, nei prossimi giorni, è facile attendersi una pioggia di offerte e controfferte, fino al momento cruciale: la conclusione di venerdì, quando dovrebbe arrivare nella capitale danese anche il convitato di pietra di tutti i vertici climatici: il presidente degli Stati Uniti. Bush è ormai dimenticato. Obama viene ma, con le mani legate dal Congresso, non potrà promettere più di tanto.
Ancora una volta, ci si attende che sia l'Europa, a guidare le danze. «Ma non possiamo svendere il nostro 30%», ha detto ieri il ministro svedese Andreas Carlgren. La Ue, già impegnata a tagliare le proprie emissioni del 20 entro il 2020, ha sempre detto di essere disposta ad arrivare a quota 30%. Al momento, non c'è certezza. Ma qui a Copenhagen è il colpo di teatro più atteso. «Se Usa e Cina offriranno un po' di più – dice un diplomatico sudamericano di lungo corso – l'Europa lancerà il suo cuore oltre l'ostacolo». Anche se, sulla strada verso un coraggioso accordo internazionale, gli ostacoli paiono ancora troppi e insormontabili.