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2 / Il discorso integrale di Barack Obama a Oslo

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10 dicembre 2009

Io non ho qui oggi a portata di mano una soluzione definitiva ai problemi della guerra. Ciò che so per certo è che far fronte a queste minacce richiede la stessa visione, lo stesso duro impegno, la stessa determinazione di quegli uomini e quelle donne che agirono così coraggiosamente alcuni decenni fa. Richiede di pensare in modo radicalmente nuovo al concetto di guerra giusta e agli imperativi di una pace giusta.

Dobbiamo iniziare riconoscendo che l'amara verità è che non riusciremo a estinguere i conflitti violenti nell'arco delle nostre vite. Ci saranno epoche nelle quali le nazioni – agendo individualmente o in concerto tra loro – scopriranno che il ricorso alla forza è non soltanto necessario, ma anche moralmente giustificato.
Sono qui a fare queste dichiarazioni memore di quello che disse Martin Luther King in questa stessa occasione alcuni anni fa: «La violenza non poterà mai a una pace permanente. Essa non risolve alcun problema sociale, ma ne crea di nuovi e di sempre più complicati». Trovandomi qui nelle vesti di chi incarna il lavoro stesso di King durato tutta una vita, sono un testimone vivente della forza morale della non-violenza. So che non c'è nulla di debole, nulla di passivo, nulla di ingenuo in ciò che Gandhi e King hanno creduto, vissuto e professato.

Come capo di Stato, però, ho giurato di proteggere e difendere la mia nazione e non posso essere ispirato soltanto dai loro esempi. Guardo al mondo, così come esso è e non posso restare a guardare senza fare nulla contro le minacce che incombono sul popolo americano. Voglio essere chiaro, non fraintendetemi: nel mondo il male esiste. Un movimento non-violento non avrebbe potuto fermare gli eserciti di Hitler. I negoziati non avrebbero convinto i leader di al Qaeda a deporre le loro armi. Affermare che il ricorso alla forza talora è necessario non significa esortare al cinismo, ma prendere atto della Storia, delle carenze dell'essere umano e dei limiti della ragione.

Parlo di ciò perché in molti Paesi vi è una profonda ambiguità su quale debba essere l'azione militare ideale della nostra epoca, a prescindere dalle cause. Talvolta a tutto ciò si sommano sospetti sull'America, l'unica grande superpotenza al mondo.
Il mondo, però, dovrebbe ricordare che non furono soltanto le istituzioni internazionali, i trattati e le dichiarazioni a portare stabilità nel mondo del secondo dopoguerra. A prescindere dagli errori che possono aver commesso, è indiscutibile che gli Stati Uniti d'America hanno contribuito a garantire la sicurezza globale per oltre sessant'anni con il sangue dei loro cittadini e la forza delle loro armi. Il servizio e il sacrificio degli uomini e delle donne che indossano l'uniforme militare americana hanno favorito la pace e la prosperità, dalla Germania alla Corea, e hanno reso possibile che la democrazia mettesse radici in luoghi come i Balcani. Ci siamo fatti carico di questo fardello non soltanto perché cercavamo di imporre le nostre volontà: lo abbiamo fatto anche per un illuminato interesse, perché vogliamo un futuro migliore per i nostri figli e i nostri nipoti e perché crediamo che le loro vite saranno migliori se i figli e i nipoti degli altri popoli potranno vivere anch'essi in libertà e prosperità.

Ebbene sì, dunque: gli strumenti della guerra rivestono la loro importanza nel mantenimento della pace. Ebbene sì: questa verità deve convivere con un'altra: indipendentemente dalle cause e dalle giustificazioni più o meno legittime, la guerra riserva tragedie per gli esseri umani. Il coraggio e il sacrificio di un soldato sono ammantati di gloria, esprimono devozione alla sua patria, alla causa e ai commilitoni, ma la guerra di per sé non è mai gloriosa, né dovremmo cedere alla tentazione di interpretarla così.
Parte delle nostre sfide odierne consiste dunque nel cercare di riconciliare queste due verità apparentemente così irreconciliabili: la guerra è talvolta necessaria ed è in una certa qual misura un'espressione dei sentimenti umani. Concretamente, dobbiamo dirigere i nostri sforzi verso quell'impegno che il presidente Kennedy delineò tempo fa: «Cerchiamo di focalizzarci su una pace più pratica e più raggiungibile, che si basi non tanto su una repentina trasformazione radicale della natura umana, bensì su una graduale evoluzione delle istituzioni umane».
Come potrebbe essere un'evoluzione di questo tipo? Quali potrebbero essere questi progressi pratici?

Tanto per cominciare, io credo che tutte le nazioni – forti e deboli che siano – debbano aderire a standard che presiedano al ricorso della forza. Come qualsiasi altro capo di Stato io mi riservo il diritto di agire unilateralmente, se necessario, per difendere la mia nazione. Nondimeno, sono convinto che aderire a degli standard vincolanti rafforzi coloro che lo fanno e al contrario isoli e indebolisca coloro che non lo fanno.
Dopo gli attentati dell'11 settembre il mondo si è stretto intorno all'America e continua ancora adesso a sostenere il nostro impegno in Afghanistan, a causa di quegli atroci e insensati attentati e del principio riconosciuto dell'auto-difesa. Nello stesso modo, il mondo ha riconosciuto la necessità di dover affrontare Saddam Hussein quando aveva invaso il Kuwait, consenso che inviò un messaggio molto chiaro a tutti su quello che comporta aggredire un altro Paese.

  CONTINUA ...»

10 dicembre 2009
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