Il tesoro per cui è partita la caccia è potenzialmente enorme. Tanto da risollevare addirittura i fantasmi di una guerra, quella che la Gran Bretagna di Maggie Thatcher scatenò nella primavera del 1982 contro la giunta dei militari argentini che avevano invaso le isole Falkland (o Malvinas, come le chiamano a Buenos Aires, che le rivendicano fin dal 1833). Parliamo del petrolio, che 4 piccole compagnie di esplorazione hanno ripreso a cercare da alcune settimane nelle acque dell'arcipelago sperduto alle porte dell'Antartide: s'ipotizza la presenza di una gigantesca quantità di "oro nero", fino a 60 miliardi di barili (equivalenti, come termine di paragone, all'insieme delle riserve accertate residue di Usa e Canada), con una stima più prudente di 3,5 miliardi nel cosiddetto "Bacino Nord", secondo la compagnia di esplorazione indipendente Desire Petroleum (una ragione sociale molto eloquente...) che lo indagherà. «Potremmo anche non trovare nulla», ammette uno dei dirigenti di Desire. Cosa che del resto già accadde alle ben più illustri Shell e Lasmo, uscite «senza ritrovamenti commerciali significativi» dalla perforazione di 6 pozzi condotta in quelle acque nel 1988. L'attesa resta comunque carica di speranze.
L'avventura che si riapre nell'Atlantico meridionale ripropone all'attenzione mondiale una questione cruciale poichè appare sempre più difficile e costosa la ricerca di risorse aggiuntive d'idrocarburi da affiancare a quei 1.258 miliardi di barili di greggio e 185mila miliardi di m³ di gas che costituiscono le riserve ufficiali mondiali accertate all'inizio del 2009, secondo lo "Statistical Review of World Energy" della Bp, ritenuta una delle fonti più attendibili in materia. La sete inesauribile di petrolio e gas – la domanda mondiale di greggio dovrebbe salire dagli attuali 86 milioni di barili/giorno (mbg) a 106 mb/g nel 2030 – spinge economisti, pianificatori e Cancellerie a chiedersi quanto greggio e gas, oltre al citato totale "ufficiale", sia ulteriormente ritrovabile ("undiscovered") per le favorevoli caratteristiche geologiche del sottosuolo e attenda solo le migliori condizioni del mercato (prezzi e livelli della domanda) per essere esattamente individuato ed estratto. Ma, soprattutto, dove queste nuove Falkland si trovino.
Sul "quanto", il grafico a lato, elaborato sui dati forniti dall'Usgs (United States Geological Survey), fornisce cifre confortanti. Vi sono, individuati e stimati con ragionevole probabilità, altri 662 miliardi di barili di petrolio, il 52% in più rispetto alle riserve ufficiali, cui vanno sommati altri 207 miliardi di barili di Ngl (condensati), mentre per il gas le cose vanno addirittura ancora meglio, con 191mila miliardi di metri cubi aggiuntivi (+103%). Tradotti in anni di durata delle riserve ai livelli di consumo attuali (42 anni per il petrolio e 60 per il gas), portano il totale globale rispettivamente a 64 e a 122 anni: una quantità molto più tranquillizzante rispetto agli sfracelli che la teoria del cosiddetto "picco di Hubbert" (l'inizio dell'inesorabile declino della produzione d'idrocarburi, fissato per l'inizio di questo decennio) minaccia di causare a breve.
Tutto dipende, ovviamente, dai livelli di prezzo delle due risorse, che possono giustificare (o meno) l'avvio della ricerca, della definizione esatta delle quantità contenute nei giacimenti e della loro messa in produzione. Non a caso - sempre restando all'esempio dei giacimenti delle Falkland, Shell e Lasmo abbandonarono le loro ricerche "anche" per il corso del greggio di quel periodo (poco più di 10 dollari), che non giustificava affatto la messa in valore di risorse così "difficili".
Resta il fatto che l'attività di ricerca per la mappatura dei giacimenti sia fondamentale, in primis per accertare l'effettiva presenza d'idrocarburi (per evitare sorprese spiacevoli, come quelle ricordate nell'articolo sottostante) e per definire le effettive quantità presenti ed estraibili.
Sul "dove" queste risorse si trovino, la mappa accanto chiarisce bene come la variabile geopolitica diventi un fattore decisivo nella scelta delle priorità delle risorse da valorizzare. E come, quindi, una collocazione "difficile" possa risultare penalizzante su quantità e qualità per il resto molto appetibili. È il caso, ad esempio, delle risorse poco note ma (pare) cospicue e di ottima qualità racchiuse nella piattaforma continentale di Cuba. Lo stesso Usgs stimava un paio di anni fa la presenza di 9 miliardi di barili, elevati dall'autorevole mensile Oil & Gas Journal a ben 21 miliardi: una quantità in grado di cambiare la vita dei cubani oppressa da quasi mezzo secolo di sanzioni economiche e le sorti del traballante regime castrista. Anche se non appare facile per l'Avana mobilitare le ingentissime risorse finanziarie necessarie al loro sviluppo.
Discorso analogo vale per le risorse (più modeste e, pare, in prevalenza metanifere) che si vanno rinvenendo sui fondali del Golfo del Bengala, nelle acque mal delimitate tra Bangladesh e Birmania. O quelle, ancor più ipotetiche, che si troverebbero (ma la mappa di Usgs non le conferma) nel Mar cinese meridionale, rivendicate dalla Cina da un lato e da Filippine, Brunei, Malaysia e Vietnam dall'altro. O, ancora, nelle acque del mar Nero, sulla piattaforma continentale che collega Timor all'Australia, lungo le coste della Somalia (mentre il paese è ridotto a "stato fallito") e nell'Ogaden, da decenni conteso tra Somalia ed Etiopia.