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Il governo rifiuta la tregua dei ribelli

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19 maggio 2010

Bangkok ha vissuto ieri una giornata che sembrava la più tranquilla dallo scorso giovedì, grazie a un primo timido tentativo di mediazione tra governo e manifestanti portato avanti da una sessantina di senatori. Almeno fino alla tarda serata, quando veicoli blindati dell'esercito hanno cominciato ad ammassarsi minacciosi nei pressi dell'accampamento delle camicie rosse antigovernative nel centro della capitale.

L'ipotesi di aprire un nuovo tavolo negoziale è stata accolta senza esitazioni dalla leadership delle camicie rosse, ma con freddezza dall'esecutivo. E in serata non era ancoro chiaro se, al di là di certe inevitabili dichiarazioni circa le precondizioni per aprire una trattativa, esistessero i margini per avviare un negoziato.
In particolare è mancata una presa di posizione del primo ministro thailandese Abhisit Vejjajiva che, secondo quanto riferito dal suo portavoce, «è al corrente dell'iniziativa ma per il momento non ha una posizione al riguardo». Di diverso tenore le parole di Nattawut Saikua, uno dei leader della rivolta, che ha spiegato di aver accettato la proposta di mediazione per scongiurare il rischio che, nell'attuale situazione di stallo, continuino a esserci altre vittime. Secondo alcuni analisti il fatto che il tentativo di mediazione sia stato avviato solo da 64 senatori su 150 non deporrebbe a favore della sua riuscita.

In mancanza di una presa di posizione del premier ci hanno pensato altri membri dell'esecutivo a sottolineare che il prerequisito essenziale per avviare una trattativa è lo sgombero spontaneo di Ratchaprasong, il centralissimo quartiere commerciale di Bangkok in mano ai dimostranti. Stabilire con certezza fino a che punto queste condizioni saranno vincolanti è difficile anche perché, ritirandosi prima di avere incassato degli impegni da parte del governo, i manifestanti si priverebbero della loro unica arma negoziale e commetterebbero un suicidio politico. E, almeno per il momento, le condizioni all'interno dell'accampamento benché peggiorate non sono drammatiche: l'odore di immondizia è ogni giorno più penetrante, alcuni dimostranti sono tornati ai propri villaggi, ma i rifornimenti di cibo, acqua e carburante non si sono ancora interrotti.

A conferma della complessità di questa crisi anche ieri, nonostante i tentativi di pacificazione, si sono registrati degli incidenti. Il conto dei morti è salito "solo" a 39, ma è senza dubbio un segnale difficile da fraintendere circa l'animosità di una parte dei manifestanti. A Din Daeng, nella zona nord orientale della città, un'importante via di comunicazione continua a restare bloccata dai rottami di due camion dati alle fiamme e gli incidenti tra esercito e manifestanti non accennano a cessare.

Allo stesso modo non sembra dare segni di cedimento la formidabile macchina logistica dei dimostranti che riesce a far arrivare alle prime linee pneumatici da bruciare e benzina con cui preparare bottiglie incendiarie con grande efficienza. Anche ieri ci sono stati almeno due feriti tra i dimostranti di Din Daeng, tra cui un giovane colpito al collo da una pallottola. «Certo che voglio andarmene a casa - spiega uno dei suoi compagni - ma prima voglio la democrazia. E preferisco morire qui, combattendo, piuttosto che di vecchiaia nel mio villaggio».

19 maggio 2010
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