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La difficile onestà nel paese dei furbi

di Giovanni Santambrogio

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10 agosto 2007

«L'opinione dello Stato sull'economia può essere sintetizzata con poche frasi: se ti muovi, ti tasso; se continui a muoverti, ti regolo; e se smetti di muoverti ti sussidio». Era la battuta pronta del Presidente americano Ronald Reagan. Certo, il rapporto tra cittadini e istituzioni non è mai stato semplice. La filosofia morale si è sempre chiesta se si dovesse destinare una quota del proprio lavoro al sovrano. E Platone rispondeva: dipende da chi è il sovrano. Mentre Bertrand Russell maliziosamente suggeriva: «Una scappatoia fiscale è quella che avvantaggia qualcun altro; quella che avvantaggia te è una riforma fiscale».
Pubblico e privato, cittadini e istituzioni: come ristabilire un rapporto corretto in un'Italia dove l'autorità è poco riconosciuta e dove la regola del più furbo premia? L'iniziativa virtuosa deve partire dai cittadini, dicono in molti, perché la società è il soggetto più autorevole e in grado di restituire dignità e immagine al Paese. Ma altri ricordano che i comportamenti dei singoli vengono distorti dai privilegi e dal cattivo esempio della classe dirigente, da quella politica a quella amministrativa che, inquinando le istituzioni, impedisce di considerarle un bene comune.
«L'Italia è un Paese di un sovversivismo diffuso – afferma Giulio Sapelli, docente a Milano di Storia economica, che a settembre pubblicherà per Bruno Mondadori La democrazia trasformata –. Un sovversivismo che annovera la stagione del terrorismo con gli "ex" ora reintegrati in posti di potere e che alimenta l'evasione diffusa, dove il furbo è diventato un modello sociale. Certo, non fa piacere un carico fiscale elevato, ma lo devo pagare perché sono un buon cittadino così com'è giusto pagare i contributi della colf. Ma quanti buoni borghesi non lo fanno?».
La virtù dell'onestà, il senso civico, l'appartenenza orgogliosa sono valori apprezzati negli altri, all'estero, ma snobbati in casa propria. «Il cambiamento scatta quando cade il concetto di furbizia – aggiunge Sapelli –. Ma l'idea di popolo si consolida se la classe dirigente pratica le virtù civili». E da questa convinzione il professore avanza perplessità sull'affermazione del ministro Padoa-Schioppa: «Sottoporre a vaglio critico la convinzione che il "pubblico" sia, quasi per costituzione, malato e che il "privato" sia, quasi per costituzione, sano». «Non è la forma di proprietà che fa le virtù civili – incalza Sapelli –. Quando la politica non entrava nelle amministrazioni, le aziende pubbliche funzionavano. Poi ci hanno messo le mani i partiti lottizzando i manager e le imprese pubbliche hanno smesso di funzionare. E così oggi assistiamo a una guerra fratricida tra poteri».
Qual è il problema? Da dove cominciamo? Chi può fare qualcosa? L'economista Michele Salvati concorda con Padoa-Schioppa sull'essere più esigenti e severi con la politica. «Abbiamo un solo strumento, la politica che deve intervenire con maggiore severità nel privato e nel pubblico. Occorre però chiedere alla politica di compiere come primo compito un salto: porre al centro dei suoi impegni la lotta all'illegalità diffusa nel settore privato (dai reati minori, all'evasione, alla criminalità organizzata) e di contrastare l'inefficienza troppo diffusa nel settore pubblico». Se l'illegalità viene stroncata appena si manifesta il costo è basso, se la si lascia dilagare diventa un compito improbo e oneroso economicamente. Cento vigili urbani bastano a garantire l'ordine a Zurigo, mille sono ancora pochi a Milano.
L'inefficienza e il rigore. Ecco i punti cruciali. Se è sbagliato contrapporre una certa virtuosità privata a una minore eticità pubblica, non va però dimenticato che le istituzioni dello Stato devono avere un "di più" rispetto all'area sociale. Ne è convinto Lorenzo Ornaghi, politologo e rettore dell'Università Cattolica di Milano. «È il "di più" che legittima il primato della politica nel governo di una collettività». E l'Italia ha avuto tempi migliori rispetto agli attuali, quando c'era una maggiore progettualità e soprattutto «la classe politica rappresentava l'interesse nazionale senza cadere nella tentazione di annunciare soluzioni ai problemi a seconda che fosse maggioranza o minoranza in quel momento. Aspettiamo da trent'anni la riforma delle istituzioni, un passo obbligato se non si vuole scomporre il nostro sistema in una faida tra parti minuscole». Oltre al fatto che «una riforma istituzionale migliorerebbe la condizione e il rapporto tra Stato e cittadini» e potrebbe ridimensionare il giudizio di trattare con uno Stato "occupatore e predatore" che non dà servizi soddisfacenti. L'antipolitica prospera là dove la credibilità politico-istituzionale scema: gli umori schiacciano la ragione.
La partita fiscale gioca un ruolo decisivo nel recupero del senso civico italiano. Carlo Lottieri, docente di Filosofia del Diritto a Siena e direttore di «Teoria politica» dell'Istituto Bruno Leoni, segnala quattro degenerazioni: troppe tasse, eccessiva progressività, elevata spesa pubblica, poca competizione e responsabilità nella spesa. «Si parla – dice – di federalismo fiscale, ma non lo si vede. Il fiscalismo italiano non offre prospettive e punisce l'autonomia della società civile. Il peso del settore pubblico condiziona le relazioni pubblico-privato».
Ancora più drastico è Marco Vitale, economista d'impresa e studioso di finanza pubblica. Ricorda che nella Bibbia, nel Libro dei Proverbi, si legge che «il Re con la giustizia rende prospero il Paese, l'uomo che fa esazioni eccessive lo rovina». La citazione, dice, «dà un quadro serio e realistico di questa Italia che non accettiamo. Così come non accettabile è la risposta del ministro Padoa-Schioppa. Prima di tutto perché i parlamentari e gli uomini di governo sono stati eletti, cioè scelti dai cittadini, ma sono stati tutti scelti dalle congregazioni dei partiti. In secondo luogo perché non si può eludere con queste prediche da parroco di campagna il problema cruciale del deterioramento del rapporto fiscale che ha raggiunto livelli tali da potersi definire la maggiore tragedia del Paese. Questa tragedia non può più essere affrontata né con il terrorismo fiscale, né con gli appelli impropri alla Chiesa, né con discorsi generici. Richiede lucidità politica e tecnica e credibilità altissime. Richiede un nuovo Ezio Vanoni che dal 1948 al 1954, diminuendo continuamente le aliquote, controllando la spesa e facendo continuamente lievitare il senso di giustizia nel rapporto tributario, risanò il bilancio dello Stato dissestato dalla guerra, finanziò la ricostruzione, insegnò agli italiani a fare la dichiarazione dei redditi e realizzò l'unica grande operazione di emersione dell'economia nera dell'intera storia italiana».

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