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Un «mostro giuridico» da riscrivere integralmente

di Guido Alpa *

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17 novembre 2007

La normativa per la tutela degli interessi collettivi approvata ieri sera dal Senato – in un contesto improprio quale è la legge finanziaria – è un mostro giuridico che, se lo si vuole mantenere in vita, deve essere completamente riscritto, pena lo scardinamento del sistema processuale vigente e l'accelerazione della crisi della macchina della giustizia.
Innanzitutto mette insieme, come se fossero situazioni equipollenti, "small claims" e altre azioni risarcitorie. Le "small claims" richiedono una disciplina a sé, un filtro molto rigido per evitare frivole rivendicazioni, o manovre ricattatorie, e pure per evitare che modestissimi danni – pur moltiplicati per migliaia di persone – si convertano nella distruzione di servizi o apparati produttivi utili per il Paese e rilevanti per il mercato. Gli episodi sconcertanti dei danni da black-out o da lievi ritardi dei treni, assecondati da qualche giudice di pace, dovrebbero costituire un monito per il legislatore, perché class action promosse contro le Ferrovie dello Stato o contro l'Enel rischierebbero di privare l'intero Paese di due servizi essenziali, attesi gli ingenti danni che i due enti dovrebbero subire, se fossero tenuti a risponderne già sulla base di una valutazione preliminare della fondatezza della domanda. Non è necessario essere abili gius-economisti per rendersi conto di questa ovvia conseguenza.
La violazione di diritti contrattuali come quelli conculcati nel caso Parmalat non implica problemi di accesso alla giustizia; sono migliaia i casi, decisi favorevolmente in primo grado, con cui i risparmiatori hanno potuto ottenere soddisfazione; se mai la vicenda richiede diversi accorgimenti processuali e indirizzi univoci di diritto sostanziale. Ancora, con riguardo ai settori in cui l'azione collettiva è ammessa: uno di essi, per la formulazione ricevuta, è indecifrabile («illeciti commessi nell'ambito di rapporti giuridici relativi a contratti cosiddetti per adesione , di cui all'art. 1342 del Codice civile, che all'utente non è dato contrattare e modificare»). A parte il fatto che il Legislatore – o il Governo – si dovrebbero preoccupare delle ragioni per cui le disposizioni sulle clausole vessatorie nei contratti dei consumatori, ora contenute nel Codice del consumo, non hanno portato alcun beneficio, val la pena di ricordare che l'illecito appartiene all'area extracontrattuale; che i contratti "cosiddetti per adesione" non riguardano solo i consumatori ma anche i professionisti; che per tutelare il consumatore se mai si dovevano richiamare le disposizioni del Codice del consumo, contenute nello stesso testo nel quale si vorrebbe inserire questo delle azioni collettive; ancora, che interpretata alla lettera, la disposizione diviene inefficace se al consumatore fosse consentito di negoziare anche una sola clausola (ad es., il prezzo delle commissioni, i tassi, i rischi coperti, etc.).
Vi sono poi altri problemi. La legittimazione ad agire, pur allargando lo spettro dei soggetti, non include i comitati, che costituiscono l'espressione più democratica ed efficace delle istanze dei consumatori, e richiede l'iscrizione dei soggetti agenti ad un registro ministeriale, limitando il diritto alla difesa. Nel testo si parla poi di diritti : ricordo che l'azione inibitoria si riferisce anche agli interessi; che fine faranno gli interessi collettivi?
Il modello introduce cripticamente un sistema opt-out, senza porsi il problema se esso sia conciliabile con il dettato costituzionale, senza considerare le esperienze già esistenti in Europa, e senza valutare comparativamente gli interessi delle categorie di consumatori e gli interessi delle categorie degli imprenditori.
La gestione dei rimborsi individuali tramite una camera di conciliazione successiva alla decisione di accertamento (e condanna?) della responsabilità dell'impresa implica il rovesciamento della logica giuridica processuale, perché la conciliazione serve a prevenire le cause, altrimenti trattasi di una "camera di transazione"; la possibilità di proseguire l'azione giudiziaria nel caso che il consumatore rimanga insoddisfatto contraddice tutta la procedura svolta fino a quel momento, perché fallisce lo scopo di concentrare e concludere in un solo procedimento le domande dei danneggiati;la fissazione di un importo – pari al massimo al 10% – per le spese di difesa implica il prodursi degli effetti di un patto di quota lite, mediante il quale si privano i danneggiati del ristoro totale. Senza calcolare che il sistema sollecita l'applicazione delle success fees, ripudiate dagli organismi rappresentativi della categoria forense in Italia e condannate in molte esperienze europee, e dà ingresso all'accaparramento di clientela, vietato dal codice deontologico forense.
Consideriamo l'ultima perla: la nullità dei contratti conclusi durante la campagna pubblicitaria per effetto di un messaggio pubblicitario ingannevole. Qui si potrebbe scrivere un poema satirico. Sia sufficiente segnalare che il messaggio pubblicitario è rivolto alla generalità,che dare la prova di aver concluso il contratto per effetto del messaggio rivolto al pubblico è pressoché impossibile, che se si dovesse formare una volontà distorta del consumatore per effetto di quel messaggio si dovrebbe parlare di annullamento e non di nullità,, che – correlato con gli effetti di un prospetto informativo lacunoso o recettivo nei contratti finanziari – il rimedio introdotto è ben più radicale, e, soprattutto, che il contratto è concluso dal consumatore non con chi ha lanciato il messaggio ma con il rivenditore-dettagliante. L'esercitazione potrebbe continuare: ma non si diceva che in Parlamento sedevano troppi giuristi?

* Presidente Consiglio nazionale forense

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