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Si apre sui medicinali «C» un mercato da 3 miliardi

di Roberto Turno

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Sabato 03 Novembre 2007

I medici di famiglia che scrivono a tutti i senatori e chiedono di cambiare subito rotta. Le industrie che denunciano l'«esproprio del marchio» e denunciano i rischi per la salute dei cittadini. Mentre i farmacisti chiosano: «Per noi non cambia nulla, e nemmeno per i cittadini», ma intanto aggiungono che «il paziente deve avere più fiducia nel medico che conosce la molecola e decide la terapia per principio attivo, più che nel medico che prescrive ricordando il nome commerciale del prodotto». Benvenuti alla guerra dei farmaci di classe «C», quelli con obbligo di ricetta pagati di tasca propria dai cittadini.
L'emendamento-Manzione approvato in commissione Bilancio al Senato nell'ambito della Finanziaria 2008 che, se ratificato definitivamente obbligherà i medici a scrivere nella ricetta soltanto il nome del principio attivo di questi prodotti, e non più quello commerciale, ha riaperto ferite mai chiuse. La difesa delle proprie prerogative da parte dei medici, la difesa dei prodotti da parte delle imprese, il ruolo del farmacista. Ma anche il prezzo dei farmaci e le differenze di listino tra prodotti simili, il peso del marketing su chi prescrive e, in definitiva, la scelta di chi diventa il regista del mercato: con l'emendamento-Manzione si sposterebbe sui farmacisti, temono le altre parti. Ed è guerra, appunto.
Prima la "lenzuolata ter" di Bersani (in panne al Senato) con la vendita anche fuori farmacia dei farmaci «C», quelli con ricetta pagati dai cittadini, che sta facendo tremare i farmacisti. Ora il nuovo emendamento alla Finanziaria. È un mercato appetitoso e ad alta tensione, quello della «C»: vale 3 miliardi l'anno e conta 6.700 confezioni. Con tre categorie super che accumulano l'80% delle vendite: ansiolitici, pillola anticoncezionale, disfunzione erettile. Da tempo non è in crescita, ma resta un business di tutto rispetto.
I medici di famiglia contestano. Giacomo Milillo (Fimmg), ha scritto una lettera aperta ai senatori: «Non approvate quell'emendamento». Spiegando: il principio attivo, ammesso che sia identico in tutte le preparazioni, «è solo una delle componenti che determinano l'effetto terapeutico». Contano eccipienti, dispositivi per la somministrazione, caratteristiche delle pastiglie, confezionamento, convinzione e compliance del paziente. Insomma, ci sono rischi per la salute e di inapplicabilità. E poi, la legge già consente alle farmacie di offrire il generico a costo inferiore. Solo la Cgil approva la novità.
Per il farmacista non cambia molto, dice Federfarma: «La legge già impone di informare il cittadino dell'esistenza di farmaci equivalenti a costo inferiore». Ma aggiunge: la novità è «una forma di trasparenza in più senza contro-indicazioni», e il cittadino può scegliere di risparmiare o meno e di scegliere la «marca» che preferisce. Quanto ai rischi, i farmacisti avvertono di aver studiato all'Università, loro sì, i farmaci per principio attivo e non per marchio. Infine la stoccata: i cittadini preferiscano il medico che conosce la molecola e la terapia, non il nome commerciale del prodotto.
Per le industrie va tutto azzerato. L'ha chiesto subito, giovedì, Sergio Dompé, presidente di Farmindustria. Claudio Cavazza, presidente di Sigma-Tau e vice presidente di Farmindustria, ribadisce: «Impedire il marchio, significa impedire a monte la concorrenza. Non c'è più rispetto per il paziente, penso agli anziani abituati a prendere un farmaco, che si troveranno nella mani di un farmacista». Di più, aggiunge Cavazza: «C'è un passaggio di mercato dalle imprese che fanno ricerca e investimenti, alla distribuzione. Io sto investendo 25 milioni in tre anni per farmaci salva-vita non più coperti da brevetto: se non ho alcuna garanzia, neppure del marchio, perché devo andare avanti? Per far guadagnare la distribuzione?».

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