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Calcestruzzo «sicuro» solo dal '70

di Giuseppe Latour

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12 aprile 2009

Fino alla fine degli anni 60 è stato miscelato in maniera "artigianale", senza seguire regole fisse. Direttori dei lavori e imprese preparavano il calcestruzzo in cantiere secondo la loro esperienza maturata sul campo. Tanto che, dicono gli esperti, quelle miscele oggi andrebbero verificate per essere certi della qualità dei composti. Un'impressione confermata dalle norme tecniche del 2008, che accantonano di fatto la produzione in cantiere e fanno del calcestruzzo industriale certificato l'unico utilizzabile per tutte le opere.

«Il calcestruzzo – spiega Luca Sanpaolesi, professore emerito di Tecnica delle costruzioni a Pisa – è una miscela di quattro elementi: cemento, acqua, additivi e inerti, solitamente sassi o sabbia. Questi elementi vengono miscelati di volta in volta in modo diverso». E il risultato non è sempre lo stesso. Negli anni la qualità dei prodotti è notevolmente migliorata: «Oggi – continua – possiamo raggiungere resistenze impensabili già dieci anni fa; inoltre i calcestruzzi più vecchi, quelli del dopoguerra, venivano prodotti con cementi spesso poco controllati».
La classificazione dei calcestruzzi avviene in base a quattro parametri: resistenza, lavorabilità, diametro degli inerti ed esposizione ambientale. Proprio quest'ultimo è il fattore più importante. Al momento dell'utilizzo del calcestruzzo è necessario avere attentamente considerato il luogo nel quale questo dovrà essere usato. Una struttura che viene costruita nelle vicinanze del mare, ad esempio, dovrà avere una particolare capacità di resistenza agli agenti esterni e una grande impermeabilità. L'altro parametro decisivo è la resistenza. Che principalmente viene regolata attraverso la combinazione di acqua e cemento.

Nel mondo dei calcestruzzi la rivoluzione è avvenuta alla fine degli anni 60, quando hanno cominciato a diffondersi i prodotti preconfezionati, non più miscelati in cantiere ma in grandi impianti di betonaggio e poi portati sul luogo del lavoro. La standardizzazione dei processi ha reso più sicuro e più diffuso il calcestruzzo. Nel decennio tra il 1972 e il 1981, dicono i dati Cresme, gli edifici con il calcestruzzo armato come struttura portante erano il 39% del totale, contro il 30% del decennio precedente. Negli anni 90 sono diventati esattamente la metà.
Tutto quello che è stato fatto prima del 1970, quindi, non ha la stessa qualità di oggi? «Non necessariamente - risponde Alberto De Vizio, direttore Atecap (Associazioni dei produttori di calcestruzzo preconfezionato) -. Anche allora si poteva lavorare a regola d'arte ottenendo un buon livello di sicurezza, così come oggi possono esservi produttori industriali che lavorano male». Comunque, la qualità media si è alzata.

Come conferma Livio Pascali, presidente della Commissione tecnologica di Atecap: «Quando il calcestruzzo veniva fatto in cantiere, il direttore dei lavori aveva anche il compito di controllare che l'operaio addetto a preparare il composto avesse le capacità per farlo. Questo dava risultati discontinui: per capire come sono state fatte quelle miscele ci vorrebbero delle verifiche».
Fino a quindici anni fa il calcestruzzo "artigianale" era ancora molto diffuso: si poteva trovare in un cantiere su cinque. Oggi al massimo nel 2-3% dei casi. Anche perché a partire dalle ultime norme tecniche del 2008, per ora solo per gli edifici pubblici, è diventato obbligatorio dotarsi di un calcestruzzo "marchiato" con il certificato Fpc (Factory production control). Marchiatura che rende essenziali i grandi impianti di tipo industriale e garantisce una produzione effettuata con criteri corretti. O almeno dovrebbe, visto che il sistema dei controlli è ancora da oliare.

«Esiste – spiega De Vizio - una responsabilità in capo al direttore dei lavori, che risponde della mancanza del certificato in quei cantieri dove è obbligatorio». Se però viene comunque usato calcestruzzo non certificato, esistono delle verifiche successive? «Al momento no, ma servirebbero».

12 aprile 2009
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