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L'architetto da artigiano a regista mediatico

di Giorgio Santilli

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4 agosto 2009

Lui, Vittorio Gregotti, 82 anni. Lei, Ludovica Di Falco, 34 non ancora compiuti. Tra questi due estremi, 135mila architetti (erano 50mila negli anni 80) e almeno quattro generazioni in guerra continua fra loro. Perché l'architettura in Italia, negli ultimi 30 anni, non ha tramandato valori, visioni e saperi dai padri ai figli. Ma ha vissuto fratture, competizioni esasperate, la difficoltà dei più giovani ad affacciarsi a una ribalta dominata a lungo dall'asse politica-professione-università-riviste. Se i 60-70enni Renzo Piano e Massimiliano Fuksas hanno dovuto vincere in Francia per tornare profeti in patria, il 50enne Mario Cucinella entra ora in rotta di collisione con il sistema dei concorsi in Italia dopo aver avuto riconoscimenti internazionali prestigiosi e i 40enni come 5+1, Labics o Metrogramma hanno scoperto dopo i primi successi che la strada per gareggiare alla pari con i vecchi è ancora lunga.

Gregotti, pensiero dominante dell'architettura «impegno civile» degli anni 70 e 80, è stato a lungo all'interno di quell'ingranaggio del comando. Ora lavora molto in Cina, lamenta «la licealizzazione di un'università che ha dimenticato il sapere tecnico» e dice che «a Milano, dietro la deregulation che ha ridotto la visione della città a bolli e autorizzazioni, se non sei contiguo a Comunione e liberazione non progetti». Bolla come «acriticamente asservito al capitalismo internazionale» il «caro amico» Rem Koolhaas, l'architetto olandese che come nessun altro ha saputo estrarre business dall'intreccio fra architettura e marketing di altissimo livello.
Di Falco, socia dello studio romano "-scape", considera Koolhaas «un genio» e non rigetta il marketing «se serve a promuovere un progetto di valore e a inserirlo in un contesto che è sempre più complesso». Nel mercato Ludovica ci è tanto immersa da aver costituito nel 2004 con i suoi tre partner, coetanei, nientemeno che una società per azioni. «Abbiamo dovuto classificarla come società di ingegneria - dice - perché agli studi di architetti non è ancora permesso di costituirsi in spa».
I giovani di "-scape" (Paolo Mezzalama, Francesco Marinelli e Alessandro Cambi oltre a Ludovica) maneggiano con abilità lo strumento della spa che da decenni è considerata dagli Ordini professionali alla stregua del diavolo. «Noi quattro soci architetti – racconta Ludovica – abbiamo insieme la maggioranza del capitale come in una sorta di patto di sindacato, mentre il nostro quinto socio, esterno allo studio, è un manager che ha creduto in noi e ci ha finanziato. In prospettiva pensiamo all'ingresso di un nuovo socio, qualcuno sul modello di Richard Burdett, un economista, sociologo e urbanista, che ci aiuti a capire il mercato e le tendenze d'evoluzione della città».

Il rodaggio è però lungo. «Il fatturato – aggiunge Di Falco – è in crescita dal 2004 non tanto grazie ai concorsi di architettura, che restano il nostro obiettivo professionale, quanto ai lavori e alle consulenze nel mercato privato e a qualche lottizzazione urbanistica». La crisi per ora non spaventa: la progettazione di qualità riguarda ancora una piccola percentuale del costruito in Italia e i margini di recupero sono enormi nel pubblico e nel privato.
Ad ascoltare Gregotti e Di Falco appare chiaro come proprio l'ingresso del capitale e della competizione sia la discontinuità più forte di questi trent'anni nel fare professione. La città privata ha sostituito quella pubblica, si potrebbe dire citando le parole di Koolhaas. Il rapporto con il mercato ha via via preso il posto della politica nella determinazione delle scelte sulle trasformazioni urbane. Si può parlare di disegno tecnico e cartongesso, di tariffe e leggi sulla professione, di tecnologie, concorsi di architettura che non funzionano, precarietà del lavoro. Ma senza affrontare il rapporto con il mercato e la politica non si comprende il mestiere di architetto, allora e oggi.
«Siamo partiti negli anni 50 e 60 – dice Gregotti – da una dimensione artigianale per attraversare, negli anni 80, una trasformazione epocale: il numero di architetti in Italia è esploso e da allora è stato costantemente quattro volte superiore al resto d'Europa. Soprattutto sono entrate in scena le real estate che interrompono il rapporto diretto fra architetto e committente, frapponendovi elementi che con la pratica architettonica e artistica non hanno nulla a che fare, come il marketing, il controllo dei costi, i servizi finanziari. Il mercato che ne è scaturito a me pare una concorrenza orientata al successo mediatico». Solo negli ultimi sei anni, il numero degli architetti è cresciuto da 103.989 del 2003 ai 136.186 del 2008. Il 19% ha meno di 35 anni, il 37% fra 36 e 45, il 38% tra 46 e 65 anni, il 6% oltre i 65 anni. Il 40% sono donne. «Questa esplosione - dice Gregotti - ha portato fin dagli anni 80 a una perdita di riconoscibilità dell'architetto moderno». Fa mille cose. Il suo ruolo mediatico lo ha messo al centro del processo di produzione edilizia.

  CONTINUA ...»

4 agosto 2009
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