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L'architetto da artigiano a regista mediatico

di Giorgio Santilli

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4 agosto 2009

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Cosa fanno i coetanei di Ludovica dopo la laurea? «Vanno tutti all'estero», risponde lei che, concluso il corso di studi, ha lavorato 18 mesi nello studio di Jean-Pierre Buffi a Parigi. Poi, ci pensa e ammette. «Qualcuno trova un posto all'università ed è meglio lasciar perdere sul modo; qualcuno realizza l'ambizione di creare un proprio studio, sapendo che incontrerà tante difficoltà. Per la mia generazione il lavoro di squadra è fondamentale, certi individualismi esasperati non interessano. Qualcun altro accetta di lavorare sottopagato in uno studio di un collega più anziano e qui si vede la differenza fra Italia e Francia. Lì esiste l'ArchiBat, agenzia per il lavoro interinale degli architetti pagata dagli studi che assumono personale. Garantisce condizioni di lavoro dignitose». Quanto alla «popolarizzazione dell'architettura che finisce sulle riviste di moda», scandalizza Gregotti, ma non i giovani. «Stiamo collaborando – dice Ludovica – con lo spagnolo Eduardo Souto de Moura a un progetto: dice che l'architettura deve essere sempre un po' sexy e lui non è certo un architetto ammiccante».
La città, la sua trasformazione, il governo dei fenomeni urbani: questo conta per Gregotti che nel suo ultimo saggio (Contro la fine dell'architettura, Einaudi, 2008) torna a stigmatizzare il postmoderno e denuncia «lo stato di liquefazione dell'architettura» che «non ha fatto che dilatarsi senza risolversi» dagli anni 80 in poi. «Si è passati da una pianificazione urbanistica accusata quasi di praticare il socialismo reale, di essere rigida e di voler imporre il controllo sul futuro – dice Gregotti – a una deregulation che ha totalmente perso una visione della città per ridurre la politica a procedura amministrativa oppure a contiguità con gli architetti amici. Nessuno è più interessato a riflettere sul rapporto profondo fra politica urbana e produzione architettonica».

Ludovica ribatte. «L'architettura politicizzata di cui parla Gregotti era un mondo chiuso: o eri così e ne facevi parte o stavi fuori. Il mercato è democratico, lascia più spazio per essere come si è, dà una possibilità a tutti. Certamente vanno corrette certe esagerazioni, perché non deve vincere solo la legge del guadagno. Ma io dico che non è il mercato ad aver invaso uno spazio non suo, ma è la politica che ormai non c'è più e non svolge il suo ruolo di controllo. Gregotti è nato e vissuto in un mondo in cui la politica era davvero qualcosa, non si può chiedere a una 34enne di credere nella politica perché la politica oggi è un vuoto».
Ludovica attribuisce alla propria generazione una visione più lucida di quella dei 40-45enni. Come se avessero definitivamente tagliato un cordone ombelicale ormai marcio. «Loro hanno fatto la Pantera, hanno coltivato l'illusione di vivere in un mondo in cui la politica c'era ancora e invece la politica stava già crollando. Questo si è sentito nel loro modo di fare professione, come se attendessero dalla politica risposte che non sono arrivate». Se la politica è crollata, continuare a pensare che possa dare un disegno alla città con gli strumenti di quando era forte, è un'altra illusione. «Ci vogliono strumenti nuovi, in cui finalmente chi governa una città dia gli indirizzi e svolga i controlli e lasci poi a un mercato concorrenziale pulito la selezione degli architetti, che in questa nuova costruzione della città non possono non avere un ruolo fondamentale».

Qui entra il discorso dei concorsi di progettazione. Le generazioni dei 40-50enni fecero all'inizio del secolo una battaglia per una riforma che imponesse il concorso come regola generale. Era un momento favorevole, le città sembravano il fuoco dello sviluppo del paese e i sindaci erano forti. Il bilancio che fanno ora è drammatico, dopo delusioni e investimenti andati a male. «Rischierò di sembrare ingenua – dice Di Falco – ma dobbiamo insistere perché quel nuovo rapporto fra professione, politica e mercato passerà per lo svolgimento di concorsi non truccati, non decisi a monte, non opachi. Sarà così anche se la politica non lo capisce».
"-scape" investe sul futuro, sempre con un piede in Italia e uno all'estero. Forse non diversamente da Renzo Piano e tutto ciò che è venuto dopo il Beaubourg. Mentre Gregotti ricorda i concorsi degli anni 60 come «procedure burocratiche per l'accesso alla professione».
«Lo scorso anno – racconta Di Falco – abbiamo ricevuto un prestigioso premio del ministero della cultura francese che ci ha selezionato fra i quindici studi di architettura under 35 più meritevoli rispetto a 300 domande. L'iscrizione ai Nouveaux albums des jeunes architects apre le porte di sindaci e assessorati. Abbiamo fatto cento richieste per essere invitati, abbiamo parlato con molti amministratori e contiamo, prima o poi, di avere accesso. Non molliamo». Qui Ludovica si permette una critica agli architetti più anziani. «Non ho sentito nessuno che abbia detto: ci sono questi giovani che sono stati premiati in Francia, è una cosa importante, vediamo come sono, facciamoli lavorare. Mi ha stupito. In Francia questa solidarietà intergenerazionale è molto forte, si tende a creare una continuità che qui non c'è».
  CONTINUA ...»

4 agosto 2009
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