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L'eterna solitudine dei magistrati

di Marco Bellinazzo

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25 agosto 2009

«I l giudice non dovrebbe essere giovane; dovrebbe aver imparato a conoscere il male non dalla sua anima, ma da una lunga osservazione della natura del male negli altri; sua guida dovrebbe essere la conoscenza, non l'esperienza personale» (Platone, Repubblica).
«Forse non è tanto un problema di esperienza e di conoscenza del male, quanto di solitudine», osserva Paola Biondolillo, 35 anni, milanese, in magistratura dal 2002. «Mi riferisco al peso della responsabilità di dover decidere ogni giorno sulla libertà di altre persone. È un peso che avverti molto, soprattutto all'inizio».
«Solitudine» con la quale si riesce a convivere meglio con il passare degli anni, maturando scelte sofferte e sbagli, magari. «Anche perché – spiega Luigi Domenico Cerqua, maceratese, 65 anni, alle spalle una carriera quarantennale dedicata alla giustizia penale – quotidianamente ci si deve poi confrontare con problemi meno metafisici». Dai fondi che scarseggiano alle carenze d'organico che affliggono tribunali e procure, surclassati da una domanda di diritto e legalità e da una conflittualità sociale che non accennano a placarsi.
«Eppure, nel '68, quando ho vinto io il concorso – sottolinea Cerqua – l'Italia stava per precipitare nella stagione del terrorismo. Ma in magistratura si respirava un clima abbastanza tranquillo». Le divisioni fra correnti, le tensioni con il mondo politico, le pressioni dell'opinione pubblica erano, per certi versi, meno intense o forse solo meno vistose. «Non dico che non ci fossero rischi di interferenza o di commistioni», spiega l'attuale presidente della quinta sezione penale della Corte d'appello di Milano. «Il fatto è che la magistratura era più compatta. E, in generale, era più rispettato il principio dell'indipendenza dei poteri». Stagioni che riemergono nella storia d'Italia e nella carriera di Cerqua, al quale a giugno è toccato il compito di leggere la sentenza di condanna delle nuove Br.

Una professione, quella del magistrato, che è anche una vocazione? «Non so se sia il caso di chiamarla vocazione», dice Cerqua. «Però è vero che deve esserci una motivazione forte, un convincimento fuori dal comune».
«Io ho sempre voluto fare questo "mestiere"», conferma Biondolillo, laurea a Pavia, tirocinio a Milano e prima assegnazione alla procura di Trapani. «Sono convinta che la legalità sia la linfa della democrazia. Quando si perde il senso della legalità la democrazia è in pericolo, perché i deboli soccombono e i forti vincono sempre. Perciò ho scelto di fare il magistrato investigativo e ho chiesto subito di andare a Trapani». Una scelta che oggi, dopo la riforma dell'ordinamento giudiziario, non sarebbe stata possibile. Per svolgere le funzioni investigative o per fare il giudice nei processi più delicati è indispensabile infatti un congruo periodo di apprendistato in affiancamento a un magistrato più anziano.
«Ma certe cautele – afferma Cerqua – possono rivelarsi eccessive, specie alla luce del più marcato ruolo direttivo che la riforma assegna al Capo della procura». E, aggiunge Biancolillo, ci sono altre considerazioni da fare: «Svolgere le funzioni di magistrato inquirente richiede tantissime energie, un grande entusiasmo e sacrifici anche sul piano personale. Tutti requisiti che sono presenti in particolar modo in chi ha preso servizio da poco. Inoltre, storicamente sono stati gli uditori a colmare le lacune delle procure più esposte nel Mezzogiorno. Quando io ho vinto il concorso, siamo arrivati qui a Trapani in cinque. Insomma, il pericolo è che vadano disperse risorse fondamentali».

Biondolillo non lo dice esplicitamente, ma è intuitivo pensare al coraggio dei cosiddetti giudici "ragazzini" – come Rosario Livatino ucciso dalla mafia agrigentina a 38 anni – che hanno pagato anche con la vita la ferrea volontà di portare a galla la verità dei fatti.
Nonostante gli incentivi economici e di carriera messi sul piatto dal Governo, le carenze di organico, come da mesi denunciano gli organismi associativi della magistratura e lo stesso Csm, restano però preoccupanti. In particolare nelle procure delle sedi disagiate. A Trapani, che pure non è considerato fra gli uffici messi peggio, su 11 pm in pianta organica gli effettivi sono cinque.
Problemi che non si ponevano quarant'anni fa. «Semmai per rendere operative tutte le strutture giudiziarie che si andavano articolando sul territorio si bandivano anche due concorsi all'anno. Peraltro, vincere era relativamente più semplice. C'erano meno candidati, poche centinaia per volta, essendo anche più basso il numero di laureati. Le prove invece erano uguali a quelle di oggi. Salvo per l'obbligo di fare riferimenti a citazioni di diritto romano nel tema di civile. Un omaggio all'eredità del nostro ordinamento».
Anche la scelta di Cerqua, quanto alla prima destinazione, è stata "di confine". «Solo che io ho optato per il Nord. Ho esordito come pm a Bolzano. All'epoca non serviva il patentino di bilinguismo». I primi incarichi riguardavano reati tornati oggi di grande attualità. «Mi occupavo di diritto penale valutario. Oltre al contrabbando di sigarette e di quelli che si definivano "tabacchi lavorati esteri", c'erano già organizzazioni molto ramificate dedite all'esportazione di capitali, titoli e valuta. Si usavano gli spalloni, ma anche i tir che passavano dal Brennero. Inoltre, era molto diffuso tra artigiani e professionisti il malcostume di costituirsi disponibilità finanziarie oltre confine, facendosi pagare le fatture metà in Italia e metà all'estero».

  CONTINUA ...»

25 agosto 2009
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