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Sui provider fa legge il giudice

di Giovanni Negri

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30 dicembre 2009
Le decisioni e i casi più eclatanti

Una nuova legislazione del web per ora manca. E forse, al di là delle tentazioni dei giorni scorsi successive all'aggressione a Silvio Berlusconi e le reazioni dilagate sui social network, non se ne sente neppure il bisogno perché la magistratura sta dimostrando di essere in grado di utilizzare le norme attuali per rispondere alle diverse sollecitazioni della cronaca. Sia sul versante civile sia su quello penale. A testimoniarlo le due recentissime pronunce, una del tribunale di Roma sulla vertenza tra Mediaset e YouTube per la diffusione delle immagini del «Grande fratello», l'altra della Cassazione, che ha annullato la decisione del tribunale di Bergamo favorevole a «Pirate Bay».
Quest'ultima sentenza, dopo avere inquadrato tra le condotte concorrenti nel reato di diffusione di opere coperte dal diritto d'autore quella del titolare di un sito web che indicizza le informazioni che gli vengono dagli utenti, ammette che il sito "incriminato" possa essere sequestrato. E qui soccorre l'ordinaria disposizione del Codice penale all'articolo 110. Il fatto poi che l'hardware del sito non sia in Italia non esclude la giurisdizione della magistratura italiana, visto che il reato di diffusione in rete dell'opera coperta da diritto d'autore si perfeziona con la messa a disposizione dell'opera in favore dell'utente finale. Nel momento in cui l'utente riceve il file o i file che contengono l'opera si realizza l'illecito, con una parte consistente dell'azione penalmente rilevante che avviene nel territorio nazionale.
Di più. La pronuncia si sofferma sulla legittimità dell'imposizione ai provider del divieto di accesso ai clienti. Un potere di inibizione riconosciuto all'autorità giudiziaria dagli articoli 14-15 del decreto legislativo n. 70 del 2003 sui servizi della società dell'informazione. Servizi, come quelli dei provider relativamente all'accesso alla rete internet, la cui libera circolazione è garantita, ma nel rispetto della legge sul diritto d'autore. Per ragioni investigative, di prevenzione o individuazione di reati, la libera circolazione può essere così compressa da un provvedimento della magistratura.
Decisivo l'articolo 17 del decreto legislativo «il quale esclude sì un generale obbligo di sorveglianza nel senso che il provider non è tenuto a verificare che i dati che trasmette concretino un'attività illecita, segnatamente in violazione del diritto d'autore, ma, congiuntamente all'obbligo di denunciare l'attività illecita, ove il prestatore del servizio ne sia venuto comunque a conoscenza, e di fornire le informazioni dirette all'identificazione dell'autore dell'attività illecita, contempla che l'autorità giudiziaria possa richiedere al prestatore di tali servizi di impedire l'accesso al contenuto illecito». Potere che però va esercitato tenendo presente che «la circolazione di informazioni sulla rete informatica internet rappresenta pur sempre una forma di espressione e diffusione del pensiero che ricade nella garanzia costituzionale».
L'ordinanza del tribunale di Roma del 16 dicembre, invece, si concentra sulla richiesta di Rti (società controllata da Mediaset) di bloccare la diffusione attraverso YouTube e Google delle immagini della trasmissione «Grande fratello». I provider si erano difesi sostenendo la loro assoluta irresponsabilità, tenuto conto che si limiterebbero a mettere a disposizione gli spazi web sui quali gli utenti gestirebbero i contenuti da loro stessi caricati. Tesi che non hanno convinto il tribunale, che ha invece sottolineato come sia Google sia YouTube si sono dotati di regole per intervenire sui contenuti, impedendo la diffusione di immagini e video pedopornografici. Inoltre, gli stessi protocolli prevedono «l'accettazione dell'utente di ogni aggiornamento deciso da YouTube, il diritto di controllare i contributi, l'assoluta discrezionalità nell'interrompere in maniera temporanea o permanente la fornitura del servizio».
Facendo ricorso allo stesso decreto legislativo n. 70 del 2003, il tribunale di Roma ammette l'assenza di un obbligo generale di sorveglianza ma, quando il provider non si limita ad assicurare una connessione alla rete, ma offre servizi aggiuntivi, esiste una responsabilità quando «consapevole della presenza di materiale sospetto si astenga dall'accertarne la illiceità e dal rimuoverlo».

30 dicembre 2009
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