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Ricordo
26 dicembre 2004, moderna Apocalisse
di Massimo Donaddio



Il 26 dicembre di un anno fa le televisioni di tutto il mondo cominciavano a diffondere le immagini di quella che in poche ore si sarebbe manifestata come l’apocalisse del Sud-Est asiatico, il devastante tsunami che avrebbe mietuto più di 226mila vittime e cancellato in un colpo solo interi villaggi abitati. I network di tutto il globo hanno fatto riecheggiare intense emozioni nel pubblico televisivo, contribuendo effettivamente a far scattare una gara di solidarietà che non ha avuto confini e forse nemmeno termini di paragone fino ad allora. Poi, dopo la grande abbuffata di notizie, l’attenzione dei media si è progressivamente attenuata, e con essa forse anche la partecipazione emotiva di chi non ha subito direttamente le conseguenze della catastrofica onda anomala, anche se la rete di soccorso internazionale ha continuato a lavorare, pur con qualche difficoltà, per tutto il corso del 2005.

Trenta minuti: questo il tempo che separa il violento sisma al largo dell’isola indonesiana di Sumatra dall’impatto devastante dello tsunami, che in poco più di quindici minuti ingoia chilometri e chilometri di costa, spazzando via numerosi centri abitati. Mancano due minuti all’una (ora locale) quando i sismografi registrano un terremoto di magnitudo 9.3 della scala Richter, circa 240 chilometri al largo di Sumatra, nelle profondità dell’Oceano Indiano, proprio nel punto di convergenza di due placche tettoniche. La scossa dura circa otto minuti, un tempo interminabile. Mezz’ora dopo, la prima onda gigantesca si abbatte con enorme violenza sulle coste di Indonesia, Thailandia, Sri Lanka, India meridionale, Myanmar, Maldive, fino a lambire le coste dell’Africa orientale (Somalia, Kenya e Tanzania). Onde alte fino a venti metri penetrano per chilometri nell’entroterra, trascinando qualunque cosa: stabilimenti balneari, villaggi, persone. I testimoni racconteranno di aver visto il mare ritrarsi per diversi chilometri prima che lo tsunami si abbattesse con tutta la sua violenza, nella più completa inconsapevolezza di ciò che sarebbe di lì a poco accaduto. Oltre ai morti, tra cui si conteranno 54 italiani, centinaia di migliaia di abitanti perdono la casa e il lavoro, forse anche la speranza.

L’Indonesia è il Paese che paga il tributo più pesante alla violenza travolgente della natura. Il governo di Giacarta parla di circa 130mila vittime, quasi 37mila dispersi e 570mila rifugiati, con danni per 4,6 miliardi di dollari. Lo Sri Lanka conta più di 31mila vittime, oltre quattromila dispersi e circa 520mila sfollati. I danni sono pari a 1,7 miliardi di dollari. I tre quarti delle oltre 12mila vittime indiane sono invece donne e bambini. I dispersi sono quasi seimila, i senza tetto quasi 650mila. I danni sono stimati in 2,5 miliardi di dollari. Almeno la metà dei 5.400 morti tailandesi sono invece turisti stranieri; altre tremila persone risultano disperse lungo le coste sudoccidentali e seimila sono i senza tetto. Il bilancio delle piccole isole Maldive parla di 82 morti, 26 dispersi, 470 milioni di dollari di danni.

A distanza di un anno dalla catastrofe, mezzo milione di persone in Indonesia vivono ancora in alloggi provvisori. Per una ricostruzione sostenibile occorreranno almeno cinque-dieci anni, secondo le previsioni della Fao. «La risposta dei donatori al disastro dello tsunami è stata enorme, ma ci sono stati ritardi nel portare aiuto alle persone che ne avevano più bisogno», commenta il direttore generale dell’organizzazione Jacques Diouf, che rilancia anche la proposta di costituire un fondo mondiale contro le calamità naturali, in maniera da rendere immediato un intervento d’emergenza umanitaria. Nonostante gli ingenti sforzi umanitari prodotti, l’agognato ritorno alla vita normale procede con lentezza. Lo tsunami ha messo in ginocchio migliaia di famiglie che avevano nella pesca, nell’agricoltura e nel turismo una fonte di reddito. Da un giorno all’altro, rilevano le Nazioni Unite, nella provincia indonesiana di Banda Aceh un abitante su tre si è trovato senza lavoro. Nelle aree colpite dalla catastrofe il tasso di disoccupazione è balzato dal 9,2 al 20 per cento. Le previsioni dell’Onu, tuttavia, invitano alla speranza: entro la fine dell’anno il 50-60% dei lavoratori sarà in grado di riprendere la propria attività e il 70% di coloro che vivono in condizioni di povertà potranno uscirne entro il 2007. Quello che più conta, in ogni caso, è la fiducia crescente nelle popolazioni così duramente colpite dalla tragedia di un anno fa. La voglia di ricostruire, di riprendere una vita normale, pur fra mille difficoltà; il desiderio di guardare al futuro e di ricominciare. Un auspicio che può diventare realtà, se queste nazioni non saranno lasciate sole.


 

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