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Influenza aviaria: caratteristiche

StoriaEcologia dei virus dell’influenza aviariaEziologiaMeccanismi di virulenza


Modalità di trasmissioneSintomi e lesioni anatomopatologicheTest diagnostici


Storia
L’influenza aviaria ad alta patogenicità (un tempo definita come peste aviaria) è stata diagnosticata e descritta per la prima volta come una malattia devastante da uno studioso italiano, Edoardo Perroncito, nel 1878 che osservò una gravissima malattia del pollame nelle fattorie delle colline piemontesi. Nel 1901 si definì che l'agente eziologico di questa malattia era un virus, ma solo nel 1955 venne dimostrato che il virus responsabile della peste aviaria era il virus influenzale di tipo A dei mammiferi. Il termine di "influenza aviaria ad alta patogenicità" (HPAI, dall’inglese Highly Pathogenic Avian Influenza) venne adottato nel 1981 durante il Primo Simposio Internazionale sull'Influenza Aviaria di Beltsville, USA, in sostituzione del termine di peste aviaria. Nel 1992 la direttiva comunitaria (92/40/CEE) ha stabilito che il termine influenza aviaria si applica solo alle infezioni sostenute da ceppi H5 ed H7 che hanno un indice di patogenicità intravenosa (IVPI) > 1,2 e/o la presenza di aminoacidi basici multipli nel sito di clivaggio dell'emoagglutinina. Attualmente tra le principali organizzazioni sanitarie è in corso un grande dibattito sulla termologia più corretta da adottare per le infezionisostenute dai diversi ceppi e sottotipi di virus influenzali. Successivamente all’identificazione della “peste aviaria” come malattia sostenuta da un virus influenzale, nel mondo sono stati isolati diversi stipiti di influenza aviare, molti dei quali causa di epidemie (Tabella 1).Sulla base dell’area geografica in cui si sono verificate queste epidemie (con riferimento allo sviluppo e alla strutturazione dell’industria avicola) e delle misure di controllo adottate (applicazione di una strategia di eradicazione rispetto ad una di vaccinazione), le epidemie di HPAI hanno avuto un diverso impatto sull’industria avicola.L’epidemia italiana di HPAI verificatasi nel 1999-2000 è stata decisamente una delle più gravi verificatasi al mondo, superata solo come numero di volatili coinvolti direttamente o indirettamente dall’epidemia olandese del 2003 e asiatica del 2004-2005.


Ecologia dei virus dell’influenza aviaria
La più grande varietà di virus dell’influenza aviaria è stata isolata dagli uccelli selvatici ed in particolare da volatili acquatici appartenenti agli ordini Anseriformi e Charadriformi. La particolare etologia di queste specie caratterizzata dalla tendenza a vivere in gruppi numerosi, la possibilità di compiere lunghe migrazioni e l'affinità per l'ambiente acquatico (via di diffusione del virus) li rendono degli ospiti ideali. Le specie che fungono da serbatoio epidemiologico avendo la capacità di infettarsi con diversi sottotipi contemporaneamente assicurano le condizioni necessarie per il riassortimento genetico, consentendo quindi la persistenza dei virus dell’influenza aviaria in natura e la comparsa di nuove varianti. I virus influenzali hanno avuto nel corso del tempo la capacità di adattarsi alle specie serbatoio andando verso una completa attenuazione della patogenicità nell'ospite anseriforme. Questi uccelli consentono quindi la permanenza in natura dei soli virus a bassa patogenicità. I focolai sostenuti da virus ad alta patogenicità negli uccelli selvatici sono molto rari in natura in quanto non rappresentano una strategia ecologica vincente poiché anche per lo stesso virus risulta poco conveniente uccidere il serbatoio attraverso il quale si moltiplica e si diffonde.
Il primo focolaio di un virus influenzale ad alta patogenicità da uccelli selvatici è stato descritto nel 1961 in Sud Africa, ed ha coinvolto 1300 sterne (Sterna hirundo) trovate morte dalle quali è stato isolato un virus H5N3 ad alta patogenicità.
Più di recente sono stati descritti diversi casi di infezione letale in uccelli selvatici nei paesi asiatici coinvolti nell’epidemia da H5N1 ad alta patogenicità. Dal 2003 l’H5N1 ad alta patogenicità è stato trovato in alcuni individui appartenenti ad almeno 11 specie: falco pellegrino (Falco peregrinus), airone grigio (Ardea cinerea), garzetta (Egretta garzetta), anastomo asiatico (Anastomus oscitans), oca indiana(Anser indicus), germano reale (Anas platyrhynchos), casarca(Tadorna ferruginea), gabbiano di Pallas (Larus ichthyaetus), gabbiano testa bruna (Larus brunicephalus), gazza (Pica pica) e la cornacchia della giungla (Corvus macrorhynchos). Il focolaio più grande è stato registrato a maggio 2005 nel Lago Qinghai nella Cina occidentale.In questo caso sono stati trovati morti oltre 6.000 uccelli acquatici, il virus al alta patogenicità H5N1 è stato isolato da cinque specie: l’oca indiana (Anser indicus), il gabbiano di Pallas (Larus ichthyaetus), il gabbiano testa bruna (Larus brunicephalus), il cormorano (Phalacrocorax carbo) e la casarca (Tadorna ferruginea).


Eziologia
Il virus dell’influenza aviaria appartiene al genere Influenzavirus A, famiglia Orthomyxoviridae. Sono virus dotati di envelope, pleomorfi, di grandezza compresa fra 80 e 120 nanometri. Contengono RNA monocatenario a polarità negativa con genoma segmentato costituito da 8 geni che codificano per 10 proteine. Tre sono rappresentate da proteine di superficie comprese nell’envelope virale e che, in vario grado, stimolano la principale risposta immunitaria neutralizzante dell’ospite: emoagglutinina (HA), neuraminidasi (NA) e la proteina di matrice 2 (M2).
Le altre proteine, situate internamente, sono rappresentate da tre molecole ad attività polimerasica (PA, PB1 e PB2), una nucleoproteina (NP), una proteina di matrice 1 (M1) ed una proteina non strutturale (NS2). Un’altra proteina virale non strutturale (NS1), prodotta in grande quantità dalle cellule infette, non entra nella costituzione della particella virale matura.
A loro volta i virus dell’influenza aviaria possono essere suddivisi in 16 sottotipi sulla base dell’antigene emoagglutinante (HA). Si conoscono inoltre 9 sottotipi di neuraminidasi (NA) antigenicamente differenti. Tutte le possibili combinazioni di antigeni HA e NA possono essere isolate dagli uccelli a testimonianza della estrema variabilità genetica dell’agente responsabile di tale infezione.


Meccanismi di virulenza
I virus responsabili dell’influenza aviaria possono essere classificati sulla base della forma clinica di malattia che essi determinano nelle specie sensibili.
Ceppi virali appartenenti a tutti i sottotipi di emoagglutinina conosciuti (H1-H15) possono determinare la cosiddetta influenza aviaria a bassa patogenicità (LPAI), che si manifesta con un quadro sintomatologico aspecifico, caratterizzato da sintomi respiratori ed enterici spesso associati, nei riproduttori e nelle ovaiole commerciali, ad anomalie riproduttive (calo o arresto della deposizione, alterazioni dell’uovo). I virus LPAI vengono anche indicati come virus dell’influenza aviaria a moderata patogenicità (MPAI, dall'inglese Mild Pathogenicity Avian Influenza).
Per contro, solo ceppi virali appartenenti ai sottotipi H5 ed H7 possono causare l’influenza aviaria ad alta patogenicità (HPAI) che, a differenza della LPAI, è una malattia sistemica caratterizzata da replicazione virale negli organi vitali e che può provocare la morte del 100 % dei soggetti colpiti.
La forma clinica ad alta patogenicità è causata solo da alcuni ceppi virali del sottotipo H5 e H7 che devono contenere molteplici aminoacidi basici a livello del sito di clivaggio della molecola della emoagglutinina. L'infettività dipende in quindi gran parte dai meccanismi biochimici legati alla scissione della molecola emoagglutinina da parte delle proteasi endocellulari dell'ospite. La sensibilità delle emoagglutinine a tale processo dipende essenzialmente dal numero e dal tipo di aminoacidi essenziali nel punto di scissione. I virus che non hanno numerosi aminoacidi basici nel sito di clivaggio sono generalmente costretti a moltiplicarsi in organi e tessuti in cui si trovano enzimi tripsino-simili come l'apparato respiratorio e digerente, per contro i virus con numerosi aminoacidi basici possono essere attivati da varie protesasi con la possibilità di diffondersi e replicarsi in molti organi e tessuti con conseguente malattia generalizzata e morte dell'ospite. L'infettività è inoltre influenzata da una serie di ulteriori fattori quali la presenza di catene di carboidrati in prossimità del sito di clivaggio, dalle caratteristiche dagli aminoacidi a monte e a valle di questo punto, dalla composizione aminoacidica di alcune proteine interne (PB2), dalle caratteristiche delle nucleoproteine virali e della neuroaminidasi.
Le moderne tecniche di biologia molecolare hanno dimostrato che in alcuni casi (Pennsylvania 1983-1984, Messico 1994-1995, Italia 1999-2000) i virus altamente patogeni originano da progenitori a bassa patogenicità del sottotipo H5 e H7.


Modalità di trasmissione
La trasmissione della malattia tra gli animali è di tipo orizzontale tramite ingestione e/o inalazione di materiale infetto.
Le modalità di trasmissione comprendono sia il contatto diretto, tra gli uccelli infetti e quelli sensibili, sia il contatto indiretto: via aerosol o attraverso l’esposizione a materiali contaminati dal virus. Dato che i soggetti infetti possono eliminare grosse quantità di virus con le feci, la diffusione è ottenuta facilmente per mezzo di qualsiasi cosa contaminata da materiale fecale, ad esempio mangime, acqua, attrezzature, personale, fornitori, mezzi di trasporto, insetti, ecc.
Nelle aree indenni da influenza, l'introduzione primaria si verifica attraverso il contatto diretto o indiretto con specie selvatiche che eliminano il virus oppure con le movimentazioni dell’uomo e delle attrezzature provenienti da aree infette e dai mercati di animali vivi.
Nelle aree in cui l’infezione è endemica la diffusione dell’infezione è da ricondurre principalmente a contatti indiretti tramite personale (veterinari, tecnici aziendali, squadre di carico e di vaccinazione, familiari), veicoli e attrezzature. Nelle aree con alte densità di allevamenti avicoli (DPPA), come quelle del nord Italia, la diffusione dell’infezione, se non opportunamente controllata, è molto rapida ed è favorita da contatti crociati tra aziende funzionalmente collegate principalmente da automezzi di servizio (camion del mangime, raccoglitore di carcasse, ecc.), di minor rilevanza la funzione delle specie selvatiche.


Sintomi e lesioni anatomopatologiche
I sintomi sono molto variabili e dipendono da numerosi fattori, primi fra tutti la patogenicità del virus e la sensibilità dell’ospite. Infatti, i ceppi a bassa patogenicità (LPAI) danno luogo, in genere, a forme di malattia lievi o inapparenti, mentre quelli ad elevata patogenicità (HPAI) possono portare in breve tempo a morte i soggetti colpiti senza che gli animali manifestino sintomi particolari.
Nel caso di LPAI i principali sintomi osservabili in specie particolarmente sensibili come il tacchino, sono rappresentati da: inappetenza, depressione (fig. 1)., sintomatologia respiratoria (sinusite, difficoltà respiratorie) ed enterica (diarrea), nei soggetti in deposizione si osserva un calo nel numero e nella qualità delle uova deposte. In genere si ha guarigione spontanea dopo circa 7-10 gironi dall'inizio della sintomatologia. Eventuali infezioni secondarie e condizioni ambientali sfavorevoli possono aggravare il quadro della malattia (fig. 2).
Nella maggior parte degli episodi di HPAI si osserva inizialmente abbattimento (fig. 3), tosse, starnuti, lacrimazione, edema della testa e della faccia, a volte diarrea e disturbi nervosi, spesso la morte nelle forme più violente sopraggiunge improvvisamente senza sintomi premonitori, la mortalità è molto elevata (fig. 4) e non di rado si avvicina al 100% (fig. 5). Anche le lesioni, come la sintomatologia, variano a seconda del ceppo virale implicato e della specie interessata. Nelle infezioni sostenute da virus HPAI si osservano sulla cute sprovvista di penna, cresta e bargigli, aree congeste con lesioni emorragiche (fig. 6 e 7). Di frequente si riscontrano anche essudato nei seni infraorbitali, trachea e sacchi areei, peritonite ovarica, enterite emorragica e lesioni necrotico-emorragiche nel pancreas (fig. 8) e nelle tonsille cecali (fig. 9). Non sono tuttavia rari i casi in cui le lesioni macroscopiche sono difficilmente apprezzabili a causa della rapidità del decorso della malattia.


Test diagnostici
Diagnosi diretta
I virus dell’influenza aviaria crescono in un numero limitato di colture cellulari; le CEF (Chick Embryo Fibroblast) sono quelle più comunemente utilizzate come colture primarie, mentre la MDCK (Madin, Darby Canine Kidney) è la linea continua più utilizzata. Nei sistemi cellulari i virus influenzali necessitano però di particolari accorgimenti.
L’isolamento in uova embrionate di pollo di 9-11 giorni d’incubazione rappresenta ancora oggi il metodo d’elezione per la ricerca e l’isolamento di questi virus, le uova utilizzate provengono da batterie di polli SPF (Specific-Pathogen-Free).
Da qualche anno in alcuni laboratori viene utilizzato un kit ELISA commerciale (prodotto per uso umano) per la ricerca dell’antigene dell’influenza aviaria tipo A da tamponi tracheali.
Numerosi progressi sono stati effettuati anche in biologia molecolare applicando la RRT-PCR (Real Time Reverse Transcriptase Polymerase Chain Reaction) e la RT-PCR (Reverse Transcriptase Polimerase Chain Reaction), al campione in esame in modo da amplificare il genoma virale.
Diagnosi indiretta
Per quanto riguarda la ricerca di anticorpi di gruppo nei confronti dell’influenza aviaria si utilizza l’AGID (agar gel immunodiffusione) o l’ELISA, per la ricerca di anticorpi diretti nei confronti dei virus influenzali di tipo A, mentre l’inibizione dell’emoagglutinazione (HI) è utilizzata per la ricerca di anticorpi diretti nei confronti di uno specifico sottotipo di virus influenzale.
TABELLA




 

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