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28 ottobre 2005

Il rapporto Onu: da 112 aziende italiane tangenti a Saddam

di Claudio Gatti
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Le tappe dell'inchiesta su «Oil for food»

Il nome in codice, in inglese, era "after sale services".

E cioè servizi post-vendita. In realtà era un eufemismo per un retropagamento da fare al di fuori dei canali finanziari che le Nazioni Unite avevano messo in piedi per assicurarsi che il regime di Saddam Hussein non avesse accesso a fondi neri. Insomma, una tangente. Che Baghdad cominciò a pretendere a partire dalla fine del 2000.
La commissione d'inchiesta sullo scandalo Oil for Food diretta da Paul Volcker ha scoperto che oltre 2mila aziende di tutto il mondo sono sottostate a questa richiesta «in violazione del regime di sanzioni imposto dall'Onu». Tra loro ce ne sono 112 italiane. Alcune hanno nomi noti, come Iveco e New Holland, entrambe del gruppo Fiat. Altre meno, come Progetto Europa & Global Spa e la Breda Energia. In un'inchiesta esclusiva «Il Sole-24 Ore» ha trovato conferme da alcune aziende interessate.
Ma ha anche scoperto che delle mazzette irachene erano stati informati sin dall'inizio tutti: dalla Farnesina al Consiglio di sicurezza, dal Governo francese, che arrivò addirittura a permettere alle aziende di defiscalizzare i retropagamenti, a quello americano, il cui rappresentante sedeva nel comitato Onu che autorizzava ogni singolo contratto.
L'azienda italiana che dal rapporto della Commissione d'inchiesta su Oil for food risulta aver fatto il retropagamento più ingente si chiama Progetto Europa & Global Spa ed è una società di ingegneria civile. Risulta aver pagato oltre 2,2 milioni di dollari. Subito dopo, con 1,8 milioni, segue la Iveco, mentre la New Holland, dello stesso gruppo, avrebbe pagato 447mila dollari. Ci sono anche sussidiarie italiane di multinazionali come la Ingersoll Rand Italiana, dell'omonima multinazionale Usa, che avrebbe pagato quasi 300mila dollari, o la Silvani Antincendi, controllata dall'inglese Kidde Holdings, che invece avrebbe pagato 988mila dollari.
Tra le aziende italiane spicca anche la Breda Energia, società milanese controllata dalla famiglia di immobiliaristi Pasini, che avrebbe pagato 420mila dollari e l'Istituto Sierovaccinogeno Italiano, una Srl controllata dalla famiglia Marcucci, e di cui nel 1995 è stata consigliere Marialina Marcucci, attuale presidente de l'Unità. Avrebbe versato oltre 350mila dollari.
Contattate dal Sole-24 Ore, Iveco, New Holland, Breda, Ingersoll Italiana hanno preferito non fare commenti. Ma l'ingegnere Carlo Trocca, presidente di Progetto Europa, invece non ha esitato a confermare tutto. «Grosso modo, in tutto, noi abbiamo fatto una cinquantina di milioni di dollari di lavori nell'ambito dell'Oil for food. Fino al 2000 non c'è mai stato chiesto niente. Poi dal 2001 fino alla guerra agli inizi del 2003, sui nostri contratti ci è stato chiesto di pagare. E noi abbiamo pagato. Dopo la guerra, abbiamo ripreso a lavorare senza più pagare» spiega. «Non avevo scelta. Dovevamo pagare quello che ci veniva richiesto, se volevamo continuare a lavorare in Irak».
La sua testimonianza è stata confermata da un altro imprenditore italiano che preferisce però mantenere l'anonimato. «Un giorno mi chiamarono in Irak e il direttore generale dell'istituzione con cui trattavo mi disse che erano cambiate le regole: sul valore concordato di ogni contratto si sarebbe dovuto aggiungere un extra del 10% che chiamarono after-sale service fee. Questa cifra, mi spiegò, doveva essere restituita al Governo iracheno attraverso il pagamento su un conto giordano di un agente da loro impostoci. Io provai a dire che la cosa era inaccettabile, ma lui rispose che la decisione era venuta dall'alto e che non c'era alcun margine di negoziazione. Occorreva pagare se si voleva continuare a lavorare. Alla fine di questa discussione, un suo uomo mi presentò un singolo foglio che avevano preparato. Lo chiamarono, in inglese, side agreement (accordo a parte). C'era scritto che mi impegnavo a pagare quel 10%. Messo alle strette, firmai. Del resto, o si stava al gioco o si usciva».
Gli investigatori dell'Onu hanno trovato centinaia di questi fogli, alcuni scritti su carta intestata dell'azienda, molti altri su fogli bianchi, firmati dai rappresentanti di aziende di tutto il mondo. Incluso decine di side agreements firmati da italiani. Ma soprattutto hanno trovato banche dati nei ministeri interessati in cui i funzionari iracheni avevano tenuto una contabilità precisa dei pagamenti. «Il sistema di tangenti era stato voluto e imposto da Saddam stesso, e nel regime del terrore che regnava in Irak all'epoca, tutti furono molto attenti a tenere il conto esatto di quei pagamenti segreti» spiega al Sole-24 Ore uno degli investigatori di Volcker.
Non di tutte le aziende citate nelle banche dati sono stati trovati i relativi side agreements. «C'è stato evidentemente chi è riuscito a pagare le mazzette senza firmare nulla. Ma una cosa è certa: se non si pagava non si avevano contratti» aggiunge l'imprenditore. «A un certo punto, poiché alcune aziende non pagavano, hanno deciso di cambiare tattica. Per essere sicuri di incassare quei soldi, cominciarono a chiedere di pagarli prima ancora dell'apertura della loro lettera di credito sul contratto. In altre parole, ci chiedevano di fare il retropagamento in anticipo».
Non c'è dubbio che il pagamento delle tangenti fosse un obbligo imprescindibile per chiunque volesse fare business in Irak. Ma era evidente che violava il regime delle sanzioni imposto dall'Onu per impedire che Saddam accumulasse valuta pesante con cui fare acquisti di materiali bellici.
«Innanzitutto, le risoluzioni dell'Onu e le procedure del programma "Oil for food" non hanno mai previsto pagamenti diretti all'Irak o a entità controllate dall'Irak, che si chiamassero after-sale fees o altro. Né il Consiglio di Sicurezza né il Comitato 661 (che governava i contratti) hanno mai approvato pagamenti fuori dal circuito finanziario controllato dall'Onu» si legge nel rapporto finale della commissione Volcker.
Gli stessi imprenditori consultati dal Sole-24 Ore hanno ammesso di aver capito che la pretesa irachena era perlomeno discutibile. «Su un contratto di 100 venivamo pagati dagli iracheni 110 in modo da poter restituire loro 10. Era chiaramente una procedura anomala» dice l'imprenditore. «Ma lo sapevano tutti che veniva adottata. Lo sapeva l'Onu stessa. Perché i rappresentati dei Paesi del Consiglio di sicurezza che stavano nel Comitato 661 hanno sempre continuato ad approvare i contratti con l'after-sale fees? Erano stati pubblicati vari articoli che denunciavano quelle fees. E i francesi arrivarono addirittura a permettere alle proprie aziende di dedurre quei pagamenti dalle tasse».
Anche l'ingegner Trocca riconosce che quella richiesta irachena fu per lui motivo di «preoccupazione». Ma per questo decise di chiedere consigli a livello istituzionale. Il 18 febbraio 2002 scrisse una e-mail a Confindustria chiedendo che venissero consultate le «autorità competenti». Il giorno dopo ricevette una risposta che ci ha letto: «Il problema segnalato è generale ed è stato sottoposto all'attenzione del ministero degli Esteri. Viene discusso informalmente al Consiglio di sicurezza, che non ha preso ancora una decisione. Il problema per le imprese italiane sarebbe essenzialmente fiscale e valutario interno, in quanto non ci sarebbero sanzioni specifiche per violazioni di questo tipo». Contattata dal Sole-24 Ore, la Farnesina afferma di «non poter credere che la Confindustria abbia detto questo». «In sostanza, per me era una licenza ad andare avanti» sostiene Trocca. «Tant'è che io quei soldi non solo li ho pagati, ma li ho anche scritti a bilancio e motivati».



 

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