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Richard Layard: «Che allegria, la triste scienza»

di Armando Massarenti

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28 maggio 2006

Guardate la vignetta qui a fianco. Fa ridere? D'accordo. Ma quanto è realistica? Davvero si può desiderare che si abbassi lo stipendio di un collega, visto che il proprio resterà invariato? E che cosa ha questo a che fare con la felicità? Non è un riso un po' amaro? Per l'economista inglese Richard Layard, direttore del Centre for Economic Performance alla London School of Economics, consigliere di Tony Blair e da poco nominato Lord, non vi è nulla di paradossale in quella battuta. Fa il paio con quest'altra, anch'essa presa dal suo ultimo libro, Felicità. La nuova scienza del benessere comune (Rizzoli, 2005): «Dicesi ricco l'uomo che, all'anno, guadagna 100 dollari in più del marito della sorella di sua moglie».
Qui al posto di "ricco" forse si poteva scrivere anche "felice". Il che fa pensare a due cose: 1) che tendiamo a sovrapporre i due concetti, felicità e ricchezza, e 2) che i due concetti non fanno riferimento a dei parametri assoluti, ma sono influenzati dalla nostra tendenza a fare confronti con le persone che ci circondano. Questo però mette in gioco una scienza apparentemente lontana dall'economia, la psicologia cognitiva, che con i suoi straordinari risultati sperimentali, e anche per il fatto che un suo rappresentante, Daniel Kahneman, nel 2002 ha vinto il premio Nobel per l'Economia, ha convinto Layard a concentrare i suoi sforzi teorici proprio sul concetto di felicità.
«In realtà non si tratta di una novità nella storia dell'economia», spiega Layard anticipando alcuni dei ragionamenti che svolgerà al Festival dell'Economia di Trento, sabato prossimo (alle 19), durante un incontro intitolato: «Più ricchi, più uguali, più felici».
«Se si guarda al progetto illuministico dei padri fondatori di questa disciplina— continua Layard—, si vede bene che il loro intento principale era appunto determinare le condizioni per la felicità umana. Bentham, Beccaria, lo stesso Adam Smith, non si preoccupavano solo della ricchezza delle nazioni, ma anche della loro felicità. L'idea stessa di utilità, da sempre al centro del discorso economico, implicava la domanda: utilità per che cosa? Utilità per il raggiungimento della felicità umana, era l'ovvia risposta».
D'accordo, ma allora: quale felicità? E perché quell'equazione oggi non è più così ovvia? «La connessione è andata perdendosi nel Ventesimo secolo — risponde Layard — a causa dello scetticismo sulla possibilità di fare confronti tra la felicità, o l'utilità, dei diversi individui. Per tutto l'Ottocento si è pensato che fosse possibile. Poi gli psicologi, con l'avvento del comportamentismo, ci hanno convinto che non lo era. Nessuna considerazione sui sentimenti e le motivazioni delle persone era considerata legittima. Pareto fu il primo comportamentista in economia. Il comportamento degli individui per lui andava descritto in termini di meri insiemi coerenti di preferenze, che nulla ci dicono sulla loro felicità. Ma se le felicità non si possono confrontare o misurare, l'unico parametro per valutare la ricchezza degli individui e delle nazioni non poteva essere che il reddito».
Un vero e proprio errore di prospettiva, lo definisce Layard. «Quello scetticismo — continua Layard — è stato superato grazie al grande cambiamento cui abbiamo assistito negli ultimi 25 anni nella psicologia e nelle neuroscienze. Oggi abbiamo una mole enorme di prove scientifiche su che cosa rende la gente felice. Prove che non vengono solo dai questionari degli psicologi, ma anche dagli esperimenti dei neuroscienziati. Oggi possiamo misurare con precisione l'attività elettrica del cervello, confrontando questi dati con ciò che la gente afferma sul proprio grado di felicità. Così possiamo prendere sul serio ciò che la gente dice a proposito della propria felicità e studiarne le cause sociali e individuali. Al di là della neuroscienze, abbiamo poi una serie di altre possibilità di misurazione indipendenti, che tengono conto non solo di ciò che uno pensa del proprio stato, ma anche di ciò che ne pensano le persone che interagiscono con lui».
Proprio da questi continui confronti si generano una serie di ragionamenti e di «norme» che troppo a lungo gli economisti hanno trascurato. «Mettiamo a confronto due situazioni. Nella prima io guadagno 100mila euro e anche tutti quelli che mi circondano guadagnano uguale. Nella seconda invece io guadagno 100mila euro, ma tutti gli altri 200mila. Ebbene non vi stupirà il fatto che la maggior parte delle persone si senta assai meno felice immaginandosi nella seconda situazione. La stessa cosa si verifica se si pensa in termini temporali e riferendosi solo a se stessi. Se quest'anno guadagno 100mila e l'anno scorso avevo guadagnato la stessa cifra, mi sentirò meglio rispetto a uno scenario in cui oggi guadagno 100mila ma l'anno scorso erano 200mila. Sono fenomeni che conosciamo tutti, ma sorprendentemente agli economisti piace fingere di non vederli».
Non è questa però la via privilegiata per sostenere l'egualitarismo.
Per quello bastano gli argomenti ottocenteschi sull'utilità marginale decrescente: si possono immaginare facilmente effetti redistributivi in cui la felicità guadagnata dalla persona più povera è sicuramente maggiore di quella persa dalla persona ricca. A Layard interessa però individuare cause più profonde di felicità o infelicità. La psicologia cognitiva, dice, ci mostra che la povertà in fondo non è la fonte principale dell'infelicità. Lo sono assai di più il disagio mentale e la depressione.
«Lo Stato dovrebbe occuparsi di più di queste cose, rimodellando i suoi interventi sulla base delle nuove conoscenze, tenuto conto che oramai le terapie sono conosciute e neppure troppo costose. In Italia avete Giovanni Fava, la cui psicoterapia cognitivo comportamentale è all'avanguardia nel mondo. Lo Stato potrebbe anche intervenire su certe forme di consumismo che colpiscono soprattutto i bambini. In alcuni Paesi scandinavi hanno opportunamente vietato le pubblicità che inducono a non poter fare a meno di certi prodotti con determinati marchi, influenzando il loro intero sistema di valori. Il che, sia chiaro, non significa adottare misure contro il libero mercato, perché questi stessi studi ci mostrano che il comunismo è la via più sicura verso la miseria. Però è anche chiaro che i valori altruistici sono fortemente legati alla felicità delle persone. Dunque lo Stato dovrebbe preoccuparsi di investire risorse in un sistema educativo che li promuova».
Ci sono Paesi che si sono orientati in questa direzione? E l'Italia in che posto si trova nella graduatoria delle nazioni felici? «I Paesi mediterranei, e in particolare l'Italia, risultano i meno soddisfatti e i meno felici rispetto ai Paesi scandinavi e all'Olanda e la Svizzera. Come si spiega? Uno dei fattori determinanti è la fiducia reciproca tra i cittadini. In Italia il livello di fiducia è scarso. È alto all'interno della famiglia, e bassissimo al di fuori di essa (ma negli ultimi tempi si sono registrati dei cambiamenti). Si è fatto un esperimento. Si è provato a vedere in che percentuale la gente avrebbe restituito al legittimo proprietario un portafogli trovato per strada contenente una certa somma di denaro. La percentuale di restituzioni è stata altissima nei Paesi scandinavi, e assai più bassa nei Paesi mediterranei. Investite nell'educazione, nel rispetto degli altri e nei valori morali. È una scelta che produce nazioni più felici.
Dunque conviene. Non foss'altro che per ragioni egoistiche».

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