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I libri: in principio fu Adamo Smith...

P. F.

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31 maggio 2006

Il “padre nobile” dell’inedito Festival dell’Economia di Trento può ben essere considerato Adamo Smith: nell’introduzione al suo celeberrimo libro «An Inquiry into the Nature and Causes of the Wealth of Nations», uscito nel 1776, egli osservò che «tra le nazioni civili e prospere, sebbene un gran numero di persone non lavori affatto e molte di queste consumino dieci volte e frequentemente cento volte più della maggior parte di coloro che lavorano, il prodotto di tutto il lavoro della società è tuttavia così grande che tutti ne sono spesso abbondantemente provvisti; e anche il lavoratore della classe più bassa e più povera, se frugale e industrioso, può godere dei mezzi di sussistenza e di comodo in quantità maggiore di quella che un selvaggio è in grado di procurarsi». Nel primo decennio del XXI secolo, l’epoca in cui noi viviamo, non ci sono più i “selvaggi”, ma sono aumentate le diseguaglianze fra Paesi ricchi e Paesi poveri e anche in Italia, come altrove in Europa, c’è la disoccupazione giovanile, il precariato e i «working poor», cioè cittadini che vivono sulla soglia della povertà pur avendo un lavoro.

David S. Landes, professore emerito di storia ed economia ad Harvard, in un’ampio e documentatissimo studio pubblicato per la prima volta nel 1998 e tradotto in italiano da Garzanti due anni dopo, «La ricchezza e la povertà delle nazioni» ha affrontato il problema del divario crescente tra i ricchi e i poveri. Nel corso degli ultimi 600 anni, i Paesi più ricchi sono stati quasi tutti europei. Alla fine del XX secolo la bilancia ha iniziato a inclinarsi verso l’Asia, dove Paesi come il Giappone si sono sviluppati con inedita rapidità. «La differenza di reddito pro capite tra la più ricca delle nazioni industriali, diciamo la Svizzera, e il più povero dei Paesi non industrializzati, il Mozambico, è di circa 400 a 1; due secoli e mezzo fa questo divario fra ricchi e poveri era forse di 5 a 1 e la differenza fra l’Europa e l’Asia orientale o meridionale (la Cina o l’India) all’incirca di 1,5 o 2 a uno». Ma perché alcune nazioni sono state privilegiate mentre altre sembrano destinate a restare per sempre nella miseria?

Secondo Landes, i Paesi occidentali hanno potuto svilupparsi assai presto grazie a una società aperta in grado di valorizzare e favorire il lavoro e la conoscenza, e dunque l’aumento della produttività e la creazione di nuove tecnologie. Oggi i vincitori sul ring dell’economia mondiale stanno seguendo proprio lo stesso percorso, mentre chi resta indietro non è stato in grado di replicare questa formula. La condizione necessaria per aiutare le nazioni arretrate, sostiene Landes, è comprendere la lezione della storia.

Robert B. Reich, che fece parte della “squadra” di Bill Clinton negli anni d‘oro della ripresa economica Usa, nel suo saggio «The Work of Nations», pubblicato in Italia nel 1999 nelle edizioni del Sole 24 Ore («L’economia delle nazioni – Lavoro, impresa e politica economica nei Paesi del capitalismo globalizzato») scrive che nell’economia globale cambia il ruolo dello Stato, dell’impresa e del lavoro: «I principali cespiti attivi di una nazione saranno costituiti dalla professionalità e creatività dei suoi cittadini», che Reich chiama «analisti simbolici».

Quasi tutti i fattori della produzione, capitali, tecnologie e attrezzature attraversano con grande facilità i confini nazionali; l’unico aspetto che dal punto di vista internazionale è relativamente immobile è la forza lavoro. E’ questo il perno centrale per una rivisitazione del concetto di “ricchezza delle nazioni”. Per Reich, «la vera sfida economica che tutti i Paesi a capitalismo avanzato dovranno affrontare nei prossimi anni, consiste nell’incrementare il valore potenziale di quello che i loro cittadini possono aggiungere all’economia globale, mediante il potenziamento delle loro professionalità e capacità e il miglioramento dei sistemi a loro disposizione per collegare queste professionalità e capacità al mercato mondiale».

Kenneth Pomeranz guarda al passato. Nel libro «La grande divergenza – La Cina, l'Europa e la nascita dell'economia mondiale moderna» (pubblicato negli Stati Uniti nel 2000 e in Italia da Il Mulino nel 2004) si chiede perché nell'Ottocento l'Europa ha imboccato la strada dello sviluppo economico-industriale e quali sono le ragioni della "grande divergenza" che si è aperta fra l'Europa e il resto del mondo. Esperto di storia cinese, l'autore, attraverso un'analisi comparata settore per settore, mostra che in realtà le condizioni dell'Europa e della Cina, ancora nel Settecento, erano del tutto simili: per speranza di vita, consumi, mercato dei beni e dei fattori produttivi, strategie familiari, ecologia.

«L’industrializzazione, almeno fino agli anni 60 dell’Ottocento - scrive Pomeranz - era ancora un fenomeno limitato, salvo che in Inghilterra. Di conseguenza parlare di un miracolo economico europeo basato su caratteristiche comuni a tutta l’Europa occidentale diventa rischioso». Nel libro si dimostra come l’Europa non avesse accumulato alcun vantaggio significativo nella disponibilità di capitale fisico prima del 1800 e non fosse più libera di altre grandi economie da pressioni maltusiane (e quindi incapace di sostenere tassi d’investimento più elevati). A creare la differenza furono il carbone e i commerci con le Americhe. La combinazione di questi due fattori consentì all'Europa nord-occidentale di svilupparsi secondo un modello basato su un alto sfruttamento di risorse e su una bassa intensità di lavoro, al contrario di quanto avvenne in Cina.

Angus Maddison si è posto in un’ottica addirittura millenaria con il volume «The World Economy – A Millennial Perspective», pubblicato nel 2001 dall’Ocse. Quando nell’anno Mille il G8 non esisteva, la Cina era già una superpotenza e da sola produceva quasi un quarto del Pil mondiale. Nel XV secolo era invece l’Italia ad avere il Pil pro capite più alto: 1.100 dollari l’anno (con valori aggiornati al 1990), rispetto ai 700-800 dollari di Francia, Germania e Inghilterra. Gianni Toniolo, sul «Sole 24 Ore» ( 22/09/05), ha precisato che gli studi più recenti tendono a spostare il declino relativo del reddito per abitante dell'Italia centro-settentrionale dal Cinque-Seicento al Settecento e primo Ottocento. Ancora nel 1820 l'Italia settentrionale, pur indietro rispetto all'Inghilterra, si trovava più o meno allo stesso livello di benessere di Francia, Svizzera, Belgio e Austria.

In base ai calcoli di Maddison, nel secondo millennio dell’era cristiana la popolazione del mondo è aumentata di 22 volte, il reddito pro capite di 13 volte e il Pil globale di quasi 300 volte: l’accelerazione è avvenuta soprattutto dopo il 1820, con un aumento della popolazione di cinque volte e del reddito pro capite di otto volte. La crescita è stata però molto diseguale: dal 1820 in avanti Nord America, Europa occidentale, Australia e Giappone sono progrediti a un passo doppio rispetto al resto del mondo. In particolare per la Gran Bretagna, fra il 1820 e il 1913, l’aumento del reddito pro capite è stato maggiore rispetto a ogni altro periodo precedente, pari al triplo del periodo 1700-1820. Per contro, il reddito degli indiani fra il 1757 e il 1857, all’epoca della British East India Company, è diminuito.

Maddison individua tre fattori per spiegare il miglioramento della performance economica: la conquista e colonizzazione di nuove terre, il commercio internazionale e i movimenti di capitali, le innovazioni tecnico-scientifiche e istituzionali. Gli anni d’oro per l’economia mondiale sono stati quelli compresi fra il 1950 e il 1973, con una crescita del Pil pro capite di quasi il 3% l’anno (un tasso che porta al raddoppio nell’arco di 25 anni). Nello stesso periodo il Pil globale è cresciuto annualmente di quasi il 5% e il commercio internazionale di quasi l’8 per cento. Questi anni videro la nascita di nuove organizzazioni economiche internazionali, dopo il collasso del vecchio ordine liberale, provocato dalle due Guerre mondiali e dalla politica del «beggar-your-neighbour» degli anni Trenta. Lo scontro Est-Ovest, dal 1948 in poi, spaccò il Vecchio continente, ma contribuì a favorire la convergenza delle economie occidentali – nell’ambito di un sistema monetario stabile, a modesto tasso di inflazione e in condizioni di quasi pieno impiego – con un recupero del gap da parte dell’Europa e del Giappone nei confronti agli Stati Uniti. Negli anni successivi, a parte l’eccezionale performance delle economie emergenti asiatiche (cresciute più velocemente che nel periodo 1950-1973 e a un ritmo dieci volte maggiore rispetto agli anni 1870-1913), diverse regioni del mondo hanno segnato il passo, dimostrandosi non in grado di adattarsi al mutato ordine economico internazionale. In media negli ultimi 25 anni il reddito di un africano è aumentato in termini reali soltanto dello 0,2% (3 dollari pro capite).

Anche John Kay – carriera accademica di “pendolare” fra le università di Oxford e di Londra, nonché editorialista del «Financial Times» – nel suo ultimo libro «Culture and Prosperity: the Truth About Markets – why some nations are rich but most remain poor» (HarperCollins, New York 2004, non uscito in Italia), premesso che «gli Americani pensano in tutta sincerità di avere inventato loro l’economia di mercato, anche se questa fu importata negli Stati Uniti dall’Europa», si è chiesto cosa ci sia all’origine dello sviluppo e perché la rivoluzione industriale si verificò a cavallo dei secoli XVIII e XIX prima in Inghilterra e poi nell’Europa continentale, anziché ad esempio in Cina. La spiegazione per Kay, risiede nel fatto che la rivoluzione industriale in Europa non fu un fenomeno puramente tecnologico, perché la strada verso la prosperità economica passa dal pluralismo democratico e i mercati funzionano bene quando sono inseriti («embedded» nell’originale inglese) in determinate istituzioni politiche, sociali e culturali. Kay mette però in guardia dai rischi di “ridisegnare” il percorso delle economie in via di sviluppo, secondo il modello Usa di un capitalismo poco regolamentato (pur vincente): che ci siano aliquote fiscali più o meno elevate, sistemi di sicurezza sociale a copertura ridotta o estesa, ecc. dipende dagli scopi che lo Stato si pone: se diversi sono gli obiettivi, diversi saranno anche gli strumenti per raggiungerli.

The Economist ha invece gettato in avanti lo sguardo di una quindicina d’anni. Secondo il settimanale britannico nel 2020 la Cina diventerà la prima potenza economica mondiale con un Pil che supererà di misura quello degli Stati Uniti (29,6 contro 28,8 miliardi di dollari) mentre l'Italia si collocherà al decimo posto. Elaborate utilizzando il metodo della parità del potere d'acquisto (Ppp), le stime 2006 dell’«Economist» indicano che la Cina passa dal secondo al primo posto nel 2020 e gli Stati Uniti perdono la leadership, mentre India e Giappone si avvicendano con Delhi che sale al quarto posto cedendo il terzo a Tokyo. Stabili Germania, Gran Bretagna e Francia, rispettivamente al quinto, sesto e settimo posto, seguite dal Brasile all'ottavo e dalla Russia, che scalza l'Italia dal nono posto.

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