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Coda di veleni per un Giro a senso unico
di Dario Ceccarelli

Altro che botto. Qui siamo alla pugnalate, ai colpi bassi, quelli vietati anche nella boxe. Il Giro d'Italia , dopo l'esplosiva tappa del Mortirolo, arriva a Milano con una coda di veleni da far paura ad Agata Christie. Viene quasi da pensare, visto quanto vetriolo scorre, che l'eccesso di fatica dell'ultima settimana abbia prodotto un tal cumulo di scorie da deflagare come un'onda di piena nel finale del Giro.

Non è la prima volta che succede, intendiamoci. Il ciclismo, anche in questo campo, non è sport per amanti delle belle maniere, per puristi del bello stile. Le roventi polemiche tra Moser e Saronni sono storie di ieri, ma ancora fresche nella memoria comune. Senza ritornare ai tempi eroici, basta ricordare l'odio che tutti nutrivano per Eddy Merckx. Quando al Giro del 1969 pianse davanti alle telecamere per il fattaccio di Savona (squalificato per doping, ma s'insinuò la voce di un complotto ai suoi danni per toglierlo di mezzo) molti sorrisero come l'infame Franti. Ben ti sta, vuoi vincere tutto? Bene, adesso paghi il dazio.

Altri tempi, però, altre rivalità. Simoni e Basso, fino a sabato, non si sono mai fatti la guerra. Anzi, i due quasi si piacevano, perfino accomunati dalla medesima antipatia per Damiano Cunego, l'enfant terribile che non guarda in faccia nessuno. Anche la schiacciante superiorità di Basso, aveva tolto peperoncino alla sfida. Simoni, già vincitore di due Giri, da tempo aveva capito che questa volta non c'era trippa. Troppo forte, Ivan. Così il Gibo, con concretezza trentina, aveva cercato di limitare i danni puntando a un posto sul podio, magari il secondo, se non ci fosse stato quel cristone di Josè Gutierrez Cataluna, arrivato dal nulla a far meraviglie dietro al faro della corsa.

Ma ecco l'esplosione dopo il traguardo dell'Aprica. Prima le accuse a Basso di scarsa signorilità: e va bene, ci può stare. Poi, la domenica mattina, a mente fredda, Simoni getta un carico da novanta da far tremare le ginocchia: Ivan mi ha chiesto dei soldi per farlo vincere... Che dire? Meglio non dire. Se così fosse, Basso, che in tasca teneva pronta la foto del figlio per mostrarla al traguardo, sarebbe una specie di Zelig inumano, un voltagabbana diabolico. Tutto è possibile, per carità. Ma Lo vedete Ivan che trama per qualche migliaio di euro una vittoria sottobanco? Uno che si fa un mazzo così per 12 mesi, che corre sia al Giro che al Tour, vende una vittoria così importante?

Stupisce anche Simoni. Inventarsela così grossa, non è facile. Simoni corre da una vita. Ha vinto due giri, è salito sette volte sul podio. E' uno che taglia le parole con l'accetta, ma schietto, leale. Forse, per dare una spiegazione, ammesso che ci sia, bisogna tornare al punto di partenza. Cioè che quest'ultima settimana di massacro, con troppe montagne per una corsa già saldamente in mano alla maglia rosa, abbia fatto saltare le centraline nervose. Che una parola non capita, che un piccolo sgarbo, abbia fatto esplodere il grumo della fatica.

La polemica, comunque, ha aggiunto pathos a un Giro che ha avuto un unico difetto: la sproporzione tra il gigante (Ivan Basso) e i suoi rivali. Fin dall'inizio infatti il quadro era chiaro. Restavano i dettagli, ma appunto dei dettagli. Superiore a cronometro, e anche sulle montagne, Ivan doveva solo vincere l'ultima sfida: quella con se stesso, emanciparsi dal ruolo di eterno secondo cresciuto alle spalle di Lance Armstrong. Per tutto l'anno, spinto dal suo sergente di ferro, il danese Riis, Basso ha lavorato per arrivare al top a questo appuntamento. Training di sopravvivenza, prove di coraggio, ginnastica da marines, la galleria del vento per migliorare la posizione a cronometro. Ivan, lavorando sui dettagli, su un legno pregiato, è diventato una quercia. Lo si paragona a tanti campioni, ma si sbaglia. Somiglia a Indurain ma è più leggero del navarro ed attacca anche in salita. Di Armostrong , il varesino ha la stessa cocciutaggine, la stessa fredda tenacia. Lo si accusava, rispetto all'americano, di essere troppo buono. Ebbene, dopo la tappa del Mortirolo, nessuno lo dirà più.

28 maggio 2006

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