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di Stefano Folli

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Il Punto
Nei giorni più amari del Professore, l'ossigeno del referendum
11 ottobre 2007
Giorni di referendum e di scatoloni pieni di schede rovesciate sui tavoli. Hanno cominciato i sindacati e domenica finiranno i democratici. Da Palazzo Chigi si osserva con attenzione il trambusto. Il primo referendum, quello sindacale, sembra offrire il risultato previsto. Previsto e benvenuto per Romano Prodi, con quel consenso al protocollo del Welfare mai così gradito come in queste ore. Sono giornate difficili per il presidente del Consiglio, forse le più amare. L'avamposto prodiano è bersaglio di un fuoco d'artiglieria insistente e concentrico. Dal Fondo monetario alla Corte dei Conti, ma soprattutto da Bruxelles al governatore della Banca d'Italia, le critiche alla politica economica sono severe e battono sempre sui tre tasti dolenti: l'eccessivo debito pubblico, l'asfissiante pressione fiscale, l'esorbitante spesa statale. E se ad Almunia si può rispondere con qualche asprezza (dimenticando che i custodi dell'"ortodossia" europeista sono nel centro-sinistra), è meno facile replicare a Mario Draghi e alla sua fredda disamina della condizione italiana.
Certo, nessun governo cade per i rilievi della Banca d'Italia: di solito la logica partitica è coriacea al riguardo. Ma è pur vero che le critiche giungono nel momento più delicato. La legge finanziaria sta per arrivare in Parlamento e l'equilibrio della coalizione assomiglia a un castello di carte in cui basta nulla per far crollare tutto l'edificio. Per cui il commento del premier («lasciateci lavorare»), che forse vuol trasmettere serenità, in realtà rivela il nervosismo crescente di un leader indebolito. Tra l'altro, non era proprio Berlusconi a chiedere ai suoi critici di farlo lavorare in pace? Era una battuta che suscitava sempre i lazzi dell'opposizione - l'attuale maggioranza - e che comunque tradiva l'affanno di chi la pronunciava.
Ora si vorrebbe poter dire che i risultati del referendum sul lavoro sono una boccata d'ossigeno per Prodi. Ma è vero solo in parte. Il dato era atteso e in sè non è clamoroso, al di là della retorica d'occasione. Anche il successo del «no» nelle grandi fabbriche più politicizzate, dove la Fiom è forte, è lungi dal costituire una sorpresa. Il problema è che il presidente del Consiglio deve adesso gestire in termini politici questa vittoria annunciata. Francesco Cossiga è convinto che ormai la sinistra radicale sia stata stroncata, ma non è così.
Intanto avremo un'astensione dei rappresentanti di Rifondazione e forse Pdci nel Consiglio dei ministri, poi riprenderà il solito percorso di guerra in Parlamento, con il gioco degli emendamenti e delle trattative "a latere". È chiaro che l'estrema sinistra non ha voglia di far cadere Prodi sulla finanziaria, ma è altrettanto chiaro che la coperta governativa è corta e non riesce a coprire tutti i partiti della coalizione e tutte le posizioni in campo. Perciò è più che mai opportuno osservare le mosse di Lamberto Dini e di altri "centristi" di frontiera.
In questo clima le parole di Almunia e i rilievi di Draghi diventano quasi il manifesto ideale di un altro governo. Un governo non più fondato sulle estenuanti mediazioni con l'estrema sinistra, non più alla disperata ricerca del consenso dei ceti medi disillusi. L'altra Italia, potremmo dire, di cui il nascituro Partito Democratico ha disperatamente bisogno per crescere e non morire in culla. Lunedì comincia un'altra partita. E chi ne dubita legga l'intervista di Anna Finocchiaro all'"Unità" di ieri. Una richiesta perentoria: «Il 15 ottobre azzeriamo i ministri del Pd». Più chiaro di così.


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