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di Stefano Folli

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Il Punto
Vince il premier, perde Berlusconi, ma il vero rischio è lo stallo
16 novembre 2007

Forse ha ragione Giulio Andreotti, quando dice che «se il Senato fosse un negozio, sarebbe già chiuso per fallimento». Amara verità che si ripropone senza scampo ogni autunno, quando le Camere mettono mano alla legge finanziaria. Lo spettacolo presenta aspetti inquietanti ed è lecito intuire, senza troppa immaginazione, che il peggio si svolga dietro le quinte. Ci si domanda cosa di buono può venirne alla credibilità delle istituzioni, che già non è troppo alta. Ma tant'è. Ogni anno si ripete il rito e il consueto mercato, quest'anno reso più elettrizzante dalla penuria dei numeri con cui la maggioranza si è presentata a Palazzo Madama.
Ora che la vicenda si è conclusa, un primo bilancio è possibile. E si deve cominciare dalla comprensibile soddisfazione di Romano Prodi. Ancora una volta la sua nonmaggioranza è riuscita a vedere il traguardo. Addirittura senza porre la fiducia, il che al Senato equivale a un esercizio di alto equilibrismo. Per l'opposizione è una lezione piuttosto dura e suscettibile di effetti politici che vedremo nel prossimo futuro. Si è comunque dimostrato che un certo velleitarismo non paga, specie quando nasconde un vuoto di strategia politica e la tentazione permanente di inseguire la rivincita elettorale. Minacciare il ritorno alle urne davanti a una platea di senatori titubanti, non è proprio un capolavoro tattico.
Tuttavia il premier, nella gioia della sopravvivenza, non può ignorare il fatto che sulla finanziaria la sua coalizione ha offerto vistosi segni di malessere. Il compromesso sui precari è discutibile; la «class action» - altrettanto poco convincente - è passata per l'errore materiale di un parlamentare di Forza Italia. Le cosiddette «novità» di cui parla una nota di Palazzo Chigi sono più che altro un gioco di prestigio politico. La realtà è un'altra, più prosaica. Trattandosi della finanziaria, nessuno dei dissidenti (da Dini a Bordon a Fisichella) ha voluto prendersi la responsabilità di consegnare il Paese all'esercizio provvisorio.
Ma ciò non significa che il centro-sinistra sia in buona salute. Al contrario, è difficile non vedere la sua fragilità e l'assenza di una visione comune. Scambiare l'assenso alla finanziaria dei «centristi» con una garanzia data a Prodi per il domani, vuol dire coltivare illusioni. Il disagio della maggioranza continua e si approfondisce, solo che non ha trovato finora uno sbocco pratico.
Quanto al centro-destra, la sconfitta è nelle cose. La carica di Balaklava, evocata dall'ironia di Cossiga, è fallita senza nemmeno l'eroismo dei cavalieri di Crimea. Il che impone di rivedere l'intero impianto di una Casa delle libertà senza idee. Berlusconi ha segnato con la sua personalità, nel bene o nel male, tredici anni di storia italiana, ma non può più trasformare la vita del Paese in una continua campagna elettorale. In un duello all'ultimo sangue tra lui e Prodi. C'è bisogno d'altro, soprattutto di un diverso orizzonte per la destra. Sotto tale profilo è significativa l'analisi di Gianni Letta contenuta nel libro di Luigi Tivelli "Chi è Stato?".
Quando afferma che «occorre definire insieme le regole del gioco... Questo è l'appello che mi piacerebbe sentire con una voce sola, destra e sinistra per una volta insieme », il più leale collaboratore di Berlusconi compie un salto di qualità. E indica una prospettiva politico-istituzionale: a tutti, anche alla sinistra moderata, ma in particolare al centro-destra. Non è più tempo di scossoni, ma di buon senso. È una proposta, attenzione a lasciarla cadere.
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