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di Stefano Folli

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Il Punto
Il vero rischio per il premier è un lento logoramento d'immagine
22 luglio 2009
Ma la popolarità di Silvio Berlusconi sale o scende? Il quesito è legittimo, giustificato da due opposti sondaggi apparsi ieri. Nel primo (Ipr Markerting per Repubblica on line) il premier perde quattro punti e scende da 53 a 49. Nel secondo (Istituto Piepoli per Affaritaliani.it) lo scenario è esattamente inverso: la popolarità cresce e tocca il 53 per cento.
Nel primo caso, è evidente, si ritiene che lo stillicidio di rivelazioni boccaccesche intorno alle serate di Palazzo Grazioli abbia scalfito l'immagine del presidente del Consiglio e cominci a produrre qualche danno. Non solo quello, è ovvio: anche gli effetti sociali della crisi economica, che peraltro lambiscono appena il governo. Nel secondo caso si considera invece che Berlusconi sia più forte degli scandali e che addirittura abbia tratto vantaggio dalle ultime settimane: ipotesi fondata soprattutto sul successo del G-8 in Abruzzo.
Difficile dire quale delle due valutazioni sia più vicina alla realtà. Però è significativo che almeno un importante istituto d'opinione registri un'inversione nell'indice di gradimento personale del premier. È una spia non trascurabile. Quella particolare «magia» con cui Berlusconi gestisce il rapporto con gli italiani, e che anche i suoi avversari spesso riconoscono, si nutre di popolarità. Prima di essere un fatto politico, ha molto a che fare con il carisma della persona. Più che per qualsiasi altro politico, la capacità di creare consenso rappresenta la chiave di volta del potere berlusconiano. L'elemento che lo rende insostituibile alla testa della sua coalizione.
Fin qui la campagna del gruppo Espresso-Repubblica, peraltro ripresa da quasi tutte le testate, non ha fornito la «pistola fumante». Non è riuscita a dimostrare che i comportamenti privati del premier, benchè disdicevoli sul piano morale, siano in aperta e insostenibile contraddizione con i suoi doveri pubblici. Come sarebbe se si presentasse la prova che è stato commesso o incoraggiato o coperto un reato. Oppure se fosse certo che è stata messa a rischio la sicurezza nazionale.
Sulla base di quello che è emerso fin qui, attraverso l'incredibile intraprendenza della «escort» D'Addario, il presidente del Consiglio ha gioco abbastanza facile nello stendere una cortina di silenzio - ben puntellata dai suoi avvocati - tra sé e il marasma. Tanto è vero che finora è fallito ogni tentativo di indurre il Parlamento a discutere della questione, come vorrebbero il Pd e ovviamente Di Pietro.
Tuttavia un conto sono le conseguenze politiche della faccenda, un altro conto le ricadute di ordine psicologico e mediatico. Il caso D'Addario non sembra essere il Watergate italiano e Berlusconi non indossa i panni di Nixon. Viceversa esistono analogie, se proprio si vuole trovarle, con la vicenda Clinton-Lewinski. In quel caso il presidente degli Stati Uniti rimase in sella, ma fu costretto ad attraversare un duro calvario personale, comprendente un discorso contrito rivolto alla nazione. Ne uscì con un'immagine molto indebolita e la sua fortuna fu la moglie Hillary, rimasta al suo fianco forse per calcolo. Quello che Berlusconi rischia è appunto un lento logoramento o deterioramento della sua immagine. Ossia del carisma e della popolarità. La base del suo potere personale da quindici anni.
Per certi aspetti, la soluzione peggiore: perché renderebbe più fragile la figura del premier nell'ora delle scelte difficili.


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