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di Stefano Folli

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Il Punto
Stefano Folli nasce a Roma da famiglia di origini milanesi. Laureato in lettere, muove i primi passi nel giornalismo alla "Voce Repubblicana", l'organo storico del Pri allora guidato da Ugo La Malfa. Nel 1981 viene nominato direttore responsabile della nuova edizione della "Voce". Collaboratore di Giovanni Spadolini, Folli ne è il portavoce a Palazzo Chigi durante l'esperienza del primo governo a guida laica, fra il 1981 e '82. Nel 1989 passa al "Tempo" come caporedattore politico. Dalla fine del '90 è al "Corriere della Sera", come notista politico e, più tardi, editorialista, fino ad assumerne la direzione tra il 2003 e il 2004. Dal 2005 è editorialista de "Il Sole 24 Ore". Folli ha anche fondato e diretto la rivista di affari internazionali "Nuovo Occidente". Ha vinto alcuni premi di giornalismo, tra i quali il St. Vincent, il premio Ischia e il Fregene.
stefano.folli@ilsole24ore.com

Un risultato a due velocità
23 giugno 2009

Due lezioni dalla giornata di ieri. La prima riguarda il referendum, con quel 23% di affluenza che pesa come un macigno sul futuro di un istituto cruciale per la democrazia. La seconda tocca i risultati dei ballottaggi, dove il centrosinistra tiene le posizioni nelle città-chiave (Bologna, Firenze, Bari, Padova) e nella provincia di Torino, perdendo, in una gara all'ultimo voto, quella di Milano; ma dove è il centrodestra, inteso come Pdl più Bossi, a strappare qualche bandiera all'avversario: la conquista del comune di Prato, ad esempio, nel cuore della Toscana, o della provincia di Venezia, ora leghista.

Saranno dati da studiare a fondo, perché segnalano una buona tenuta del centrosinistra nel territorio, dopo lo smottamento del primo turno, ma anche l'importanza dell'alleanza sottoscritta in alcune zone con l'Udc di Casini, decisivo almeno a Torino e a Foggia. Mentre nel campo avverso i dati descrivono un centrodestra che ottiene buoni risultati soprattutto dove il peso della Lega si esprime in pieno, come a Venezia, o dove riesce comunque a ispirare la linea della coalizione, come a Prato.

Dire, come il segretario del Pd, Franceschini, che «il declino della destra è cominciato», è una forzatura dettata dalla convenienza politica, ma pur sempre una forzatura. È vero che le liste del centrosinistra hanno riacquistato un po' di smalto e le percentuali delle città sono lì a dimostrarlo: poteva andare molto male, invece è andata abbastanza bene. Va riconosciuto, tuttavia, che personaggi come Zanonato a Padova o Penati a Milano hanno combattuto la loro battaglia su posizioni assai distanti da quelle del Partito democratico nazionale: sotto questo profilo, anzi, la frattura nel Pd fra «il partito del Nord» e il resto d'Italia è persino cresciuta.

Per essere competitivo il centrosinistra si sforza di far proprie istanze in stile «legge e ordine» che un tempo rimproverava alla Lega: ma non riesce o non vuole farlo dappertutto in modo coerente e convincente.

È anche vero che, sull'altro versante, è venuta meno la tradizionale spinta propulsiva di Berlusconi. In certe situazioni, come nella provincia di Milano, la vittoria risicata di Podestà potrebbe dipendere anche dall'appannamento dell'immagine del premier, che si è ritirato dalla campagna. Idem a Bari, dove il candidato berlusconiano è precipitato rispetto al primo turno. Tuttavia è altrettanto vero che la destra, un passo dopo l'altro, allarga la sua rete territoriale. E dopo che i dati finali hanno confermato la riconquista della provincia milanese, è difficile parlare di «declino». Tanto più che altre zone scivolano verso amministrazioni di centrodestra, come Ascoli, Frosinone, Lecce. Oltre a Prato e Venezia, di cui si è detto.

È una penetrazione lenta, priva di quel senso di ineluttabilità che è stato spazzato via dalle varie Noemi e Patrizie di cui sono piene le cronache. Eppure avviene: a opera di una destra che riesce a reggere anche nei ballottaggi, a differenza di un tempo, e mostra di aver assimilato il linguaggio leghista, la capacità del Carroccio di capire il territorio anche in aree lontane dall'«estremo Nord».

In un certo senso i veri vincitori del voto di domenica sono Bossi, astuto condottiero di questo lento cammino del centrodestra, e Casini, abile nel valorizzare ogni singolo voto dell'Udc, legandolo anche al Pd quando è apparso conveniente. Il che ci riporta al non-risultato del referendum, che ha visto proprio i capi della Lega e dell'Udc come strenui avversari di Guzzetta e Segni. Senza dubbio l'astensione ha sconfitto la spinta verso il bipartitismo. Resta il nostro bipolarismo anomalo, condizionato dalle forze intermedie, talvolta radicali. La Lega, appunto. L'Udc terzaforzista. E l'Italia dei Valori di Di Pietro.

Il referendum, inutile negarlo, paga il prezzo dell'indifferenza quasi generale, quando non del boicottaggio governativo prodotto dall'ostracismo della Lega. Ma il disastroso fallimento è anche figlio di una serie di errori politici commessi dai promotori. Ci fu un tempo, anni fa, in cui la spinta referendaria interpretava lo spirito dei tempi e innescava grandi cambiamenti del senso comune. Oggi non è più così. Occorrerà riflettere su cosa serve per evitare la morte dell'istituto referendario. Una riforma volta ad abbattere il «quorum», innalzando le firme necessarie ad avanzare i quesiti, può essere una strada. Meglio parlarne prima che sia troppo tardi.
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