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di Stefano Folli

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Il Punto
L'inevitabile accordo che Giulio non poteva non accettare
28 ottobre 2009
Nella vita degli uomini politici, almeno di quelli di primo piano, arriva presto o tardi la zona d'ombra. Una sconfitta, un inciampo o un arretramento sulla via delle grandi ambizioni. Capitò a personaggi destinati poi a scrivere la storia. Per esempio a Winston Churchill, emarginato nel partito conservatore inglese nella seconda metà degli anni Trenta: fino a quando la ruota della fortuna girò a suo favore. Il difficile sta nel gestire la fase negativa, quale che sia la sua durata, senza cadere nella depressione o nello psicodramma.
L'intelligenza di un uomo politico in crisi si vede quindi dalla capacità di non commettere errori irreparabili. Il che richiede saldezza di nervi e vista lunga. In altri termini, si tratta di salvaguardare una prospettiva strategica senza farsi schiacciare dagli ostacoli.
Giulio Tremonti è di fronte a questo bivio. La sua speranza di essere riconosciuto all'interno del centrodestra come l'unico e imperscrutabile artefice della politica economica è fallita. L'idea di un «vicepremierato» in grado di suggellare lo status di «zar» dell'economia è caduta nel nulla e forse non poteva essere altrimenti, date le evidenti implicazioni politiche che l'operazione sottintendeva. Ora il ministro di via XX settembre deve accettare un compromesso che ha il sapore di una sconfitta, nonostante qualche premio di consolazione.
Cinque anni fa, nel 2004, in un quadro diverso ma non troppo, Tremonti lasciò il governo e cominciò la sua personale traversata del deserto prima di rientrare in gioco con tutti gli onori. Oggi non può permettersi di ripetere il gesto, cedendo all'orgoglio intellettuale. È vero che le sue dimissioni creerebbero un grave danno a Berlusconi e il presidente del Consiglio sembra esserne consapevole. Non c'è un altro Tremonti all'orizzonte, tanto meno un «tecnico qualsiasi» in grado di sedersi dietro la scrivania del Tesoro con lo stesso prestigio.
Al di là di qualche battuta paradossale, il premier sa che l'Unione europea ha in Tremonti un interlocutore ben conosciuto e affidabile. Una drammatica uscita di scena del ministro sarebbe vista, a torto o a ragione, come il trionfo del «partito della spesa». E le conseguenze sull'immagine del paese non sarebbero piacevoli. D'altra parte, le dimissioni porterebbero Tremonti ai margini della politica e cancellerebbero il suo futuro.
Per certi aspetti il compromesso era ed è nell'interesse di tutti. Berlusconi difende la sua leadership, pur sapendo che il rapporto con la Lega ha bisogno di una tessitura quotidiana: almeno fino al giorno in cui le intese sulle prossime elezioni regionali saranno rese ufficiali. Tremonti si rimette al lavoro dentro spazi di manovra più ristretti, ma ottiene di essere «riammesso», se così si può dire, in un Popolo della libertà che nelle ultime settimane aveva dato segnali di considerarlo un corpo estraneo.
Non è poco, date le circostanze. L'ambizione tremontiana è quella di contare nel centrodestra di domani o di dopodomani. Quando Berlusconi non sarà più il leader incontrastato. Per riuscirci deve camminare, ancora per un lungo tratto, su di un sentiero in salita. E forse dovrà anche prendere qualche distanza dalla Lega. Bossi lo ha difeso, sì, ma ha pensato soprattutto al tornaconto della sua parte politica. Come è logico. Da oggi a Tremonti non conviene più essere visto nel centrodestra come una specie di ministro leghista.


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