Terrore, l'Europa esce dal sonno della ragione

di Silvio Fagiolo

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9 settembre 2007


Il drammatico colpo di gong dell'11 settembre ha segnato sei anni fa il vero inizio del XXI secolo, modificando al l'istante negli americani la percezione del mondo e stipandoli tutti idealmente, nel loro lutto collettivo, in una terza torre, costruita dal crollo delle altre due.

Non a caso Osama bin Laden ha scelto la ricorrenza di quella data per riproporsi come convitato di pietra alla vigilia di una fase cruciale del confronto interno all'America sull'Iraq. Ma il nuovo intervento dalla latitanza non può che accelerare, nonostante l'imbarazzo di Bush, il recupero della solidarietà transatlantica reso possibile dagli ultimi mutamenti in Europa. La revisione della politica estera è sempre, negli Stati Uniti, un processo a combustione lenta.

L'agonia della guerra irachena potrebbe non essere inferiore a quella del Vietnam, ma non terminerà con la drammatica evacuazione in elicottero dell'ultimo ambasciatore a Bagdad...Una correzione strategica definitiva non può che essere rimandata fino all'arrivo di un nuovo presidente e i periodici ritorni di bin Laden per riproporsi come ispiratore, se non leader, di un movimento oggi troppo frammentato, possono solo rallentare ma non modificare il corso degli eventi.

La guerra al terrorismo si è rivelata un'espressione infelice. Il terrorismo è un bersaglio troppo limitato per gli interessi molteplici di una grande potenza. Troppo astratto ed elusivo per essere operativo, per non incorrere, come in Iraq, in falsi bersagli. La cultura della paura ha avuto effetti deleteri sulla democrazia americana. Bush si è atteggiato a pontefice massimo della religione civile americana e a comandante in capo di una nazione in guerra. Il fine ultimo di una logica dell'emergenza è sembrato voler esimere gli Stati Uniti dal rispetto di precetti universali nelle relazioni internazionali. Ma poi Washington ha rimosso quegli elementi dell'ordinamento interno che minacciavano di sostituire nell'immaginario esterno la statua della libertà con la prigione di Guantanamo.

Gli europei a loro volta sono costretti a constatare che Bin Laden, anche nell'iconografia e nella tempistica della sua ultima apparizione, accomuna tutti gli occidentali in un'unica condanna, interpreta il conflitto come scontro di civiltà e li costringe a serrare i ranghi di fronte alle prospettive di nuovi attacchi.
Con scetticismo era stata salutata la campagna americana per esportare la democrazia. Bush è stato oggetto di scherno perché si sentiva come un moderno Mosè gravato dal compito di guidare alla liberazione i popoli oppressi. Il nuovo realismo americano dovrebbe tradursi in una strategia che miri a consentire di nuovo al Paese di unirsi al mondo.

Nel frattempo gli europei sanno che una sconfitta dell'America avrebbe anche per loro conseguenze catastrofiche. La loro storia insegna che non sempre chi soccombe sul camp di battaglia è il vero perdente: a Sadowa fu sconfitta la Francia prima del l'Austria, a Sedan la Gran Bretagna prima della Francia.
Il viaggio del ministro degli Esteri francese Bernard Kouchner a Baghdad è un segno di questa consapevolezza e ritrovata solidarietà.

Certo,lo ricorda Brzezinski nel suo utimo libro, la democrazia imposta a società tradizionali non esposte alla progressiva espansione dei diritti civili e al graduale emergere del primato del diritto può apparire una scorciatoia "leninista". Certo gli europei sono più vicini allo storico pessimismo di un Kissinger o al paziente determinismo economico dei fautori della globalizzazone come Clinton. Ma gli europei non possono dimenticare che comunque la democrazia è l'unica garanzia di un ordine pacifico e prevedibile. Sono le autocrazie, magari liberali sul piano economico, come la Russia o Cina che più di altre si avvarrebbero di una disfatta americana.

Gli europei sembrano aver posto fine al loro sonno della ragione. Gli americani a loro volta constatano che l'interdipendenza mina ogni tentazione egemonica in un clima ad essi sempre più ostile se il potere non è guidato dal diritto e mira semplicemente a reprimere e dominare. Grazie al contributo di Angela Merkel, Nicolas Sarkozy e Romano Prodi è stata superata l'aberrazione che aveva indotto a vedere la crescita dell'autocoscienza europea legata al dissidio con gli Stati Uniti.

L'antiamericanismo non può essere la lingua franca dell'Europa occidentale. Gli Stati Uniti non sono il potere malvagio che sta dietro alla astratta complessità di problemi e di cambiamenti sociali che fanno muovere il mondo, non sono la personificazione e il volto da detestare nel nuovo stadio dello sviluppo capitalistico che va sotto il nome di "globalizzazione". La solidarietà degli Stati autenticamente democratici si conferma invece il mandato che discende dall'11 settembre.

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