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Il grande borghese

di Valerio Castronovo

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È stato un grande borghese, una personalità caratterizzata da un singolare impasto di curiosità per tutto ciò che sapesse di nuovo e di disincantato eclettismo. Ed è stato, si può ben dire, l’unico esponente della classe dirigente italiana che abbia raggiunto e mantenuto negli ultimi quarant’anni, insieme a una vasta notorietà fuori dai confini nazionali, un posto di rilievo nell’establishment del mondo occidentale. Non soltanto per il suo ruolo di leader dell’ammiraglia del capitalismo italiano e di uno dei principali gruppi industriali europei. Ma anche per una larghezza di visuali e un giro di relazioni a livello internazionale,fra i big dell’economia e della politica, fuori dal comune anche in imprenditori di rango superiore al suo.
Il fatto che fosse l’erede per diritto di nascita di un cospicuo patrimonio familiare e di un’azienda come la Fiat già in possesso di un illustre blasone, non basta a spiegare come egli sia venuto imponendosi alla ribalta con dei tratti distintivi così spiccati. E abbia continuato a occupare la scena da protagonista anche in certi frangenti particolarmente avversi per le fortune dell’impresa di cui era a capo.
Vocazione imprenditoriale. Chi aveva intuito per primo, quando ancora Gianni Agnelli passava agli occhi dei più come un plurimiliardario giramondo svagato e apatico, che nel "nipote del Senatore" (come lo chiamava Valletta) si celava una vocazione imprenditoriale, segnata da una robusta dose di cosmopolitismo quanto dall’ambizione di recitare una parte preminente nella vita pubblica italiana fuori dai canoni tradizionali del suo ceto d’appartenenza, era stato un uomo navigato e tutt’altro che indulgente nei propri giudizi come Enrico Cuccia, il patron di Mediobanca. «Mi è piaciuto subito perché gli stava stretto tutto. Torino, l’Italia... E non aveva paura di farsi dei nemici», egli disse di Agnelli in una delle sue rarissime confidenze. Certo, Agnelli aveva di per sé, per le proprie ascendenze e i suoi rapporti con il mondo della grande finanza, ma anche per la sua versatilità e il suo innato anticonformismo, dei connotati assolutamente eccentrici rispetto a quanti popolavano l’universo, ancora per tanti aspetti provinciale, dell’imprenditoria italiana dei primi anni Sessanta. Ma quel che l’aveva indotto a concepire il compito a cui era predestinato come qualcosa di più della gestione di un complesso pur imponente di risorse e di interessi, era stata l’influenza esercitata sui suoi orientamenti dalla ventata di novità manifestatasi sull’altra sponda dell’Atlantico dopo l’insediamento di John Kennedy alla Casa Bianca.
Se per il nonno, il fondatore della Fiat, l’opera di Henry Ford era stata un modello di riferimento esemplare per fare di Torino la "Detroit d’Italia", per lui il programma della "Nuova Frontiera" del leader democratico americano costituì un paradigma ideale nella maturazione dei propri convincimenti. Con Kennedy egli aveva del resto una lunga dimestichezza, fin da quando questi aveva iniziato la sua scalata ai vertici della vita politica statunitense. E a lui si sentiva affine per temperamento e per inclinazioni, oltre che per condizione sociale. Riconoscerà poi: «Vedevo in Kennedy un uomo straordinario. Mi ha dato fiducia nella nostra generazione, lui ne aveva in abbondanza». Del Presidente americano lo avevano attratto il gusto della sfida e lo slancio riformatore.
Capitalismo riformista. Furono appunto queste suggestioni trasfuse da Agnelli in quello che venne definito il suo "discorso della Corona", all’atto nell’aprile 1966 di succedere a Valletta nella guida della Fiat, a far parlare di lui come dell’alfiere di un "capitalismo riformista".
Ossia di un capitalismo che avrebbe promosso, da quella che era la "città-fabbrica" per eccellenza, un nuovo sistema di relazioni industriali, basato su un confronto costruttivo fra impresa e sindacato, e un salto di qualità nel processo di sviluppo economico per estenderlo al sud della Penisola e renderlo più competitivo nei circuiti internazionali. Le cose andarono poi ben diversamente da questi suoi propositi e dalle aspettative che avevano suscitato. Dato che l’"autunno caldo" fu il preludio di una fase, prolungatasi per oltre un decennio, di una conflittualità operaia endemica; mentre l’inconvertibilità del dollaro mise in moto a sua volta una catena di pesanti perturbazioni sui mercati finanziari incrociatesi per giunta con due successive impennate dei prezzi petroliferi. Al punto che la Fiat corse il rischio, alle prese tanto con un’ondata di massimalismo sindacal-ideologico quanto con la stagflazione, di ammainare bandiera. Ma anche nei tornanti più difficili, Agnelli continuò a credere che sarebbe stato possibile giungere a coniugare crescita economica ed evoluzione sociale per la modernizzazione del Paese nell’ambito di una salda democrazia industriale. Non poteva rassegnarsi all’idea che l’Italia non "attraversasse le Alpi", avesse un destino differente da quello dei Paesi più avanzati. Fu così che il rappresentante più autorevole dell’aristocrazia imprenditoriale italiana si fece carico di incombenze e di responsabilità che avevano a che fare sia con la sfera politica (pur avendo egli rifiutato nel 1975 la candidatura per il partito repubblicano offertagli da Ugo La Malfa) che con gli interessi generali del Paese.
Dopo aver salvato nel 1973 il «Corriere della Sera» da una fine ingloriosa (quale sarebbe stato l’infeudamento a una "borghesia di Stato" legata a filo doppio con un vertice della Dc, a suo avviso, «sempre più arrogante e invadente») e aver così contribuito a preservarne l’indirizzo liberal-democratico, due anni dopo Agnelli si assunse l’ingrato compito, sapendo che ciò avrebbe alimentato la spirale inflattiva, di firmare con Luciano Lama l’accordo sul punto unico di contingenza pur di riportare "la pace in fabbrica". Per poi proporre un’"alleanza fra i produttori" contro le rendite di posizione e il parassitismo burocratico, gli sprechi e i privilegi corporativi. Né queste furono le uniche iniziative da lui intraprese per scongiurare che l’Italia scivolasse verso una deriva irreversibile, fra aspre contrapposizioni politiche, persistenti tensioni sociali, inflazione a due cifre e assalti del terrorismo. Da un lato, infatti, Agnelli s’adoprò a spiegare ai suoi interlocutori americani (da Kissinger a Brzezinski) che senza i comunisti non si sarebbe potuta gestire una situazione sempre più insostenibile, e si offerse, qualora fosse stato necessario, di andare a Washington come ambasciatore per garantire la fedeltà dell’Italia all’Alleanza Atlantica. Dall’altro, s’impegnò a rassicurare l’opinione pubblica tedesca e inglese che l’ingresso del Pci in una maggioranza di "solidarietà nazionale" non avrebbe allontanato il nostro Paese dall’Occidente e dalla Comunità europea, ma anche a far sapere che sarebbe stato respinto ogni tentativo d’intromissione che ledesse la sovranità dello Stato italiano.
L’adesione allo Sme. Se Agnelli agì tra il 1976 e il 1978 da "ammortizzatore" (per dirla con le sue parole) al fine di attutire i timori insorti in America e in Europa che l’Italia finisse per "prendere una forte tinteggiatura in rosso", egli svolse successivamente lo stesso ruolo nei confronti delle preoccupazioni, espresse da alcuni governi della Cee, che l’adesione al Sistema monetario europeo di un Paese come il nostro, enormemente indebitato e con una lira continuamente traballante, compromettesse gli obiettivi di una stabilizzazione dei cambi e di una riduzione dei tassi che s’intendevano raggiungere. L’Avvocato era infatti convinto che solo allineandoci alle direttive di Bruxelles avremmo avviato il risanamento delle finanze pubbliche; e che, se fossimo riusciti in quest’intento, avremmo concorso a fare dello Sme un passo importante verso l’istituzione di "un’autorità di governo sovranazionale". Del resto, aveva sempre condiviso la causa europeista, di cui il nonno era stato uno dei precursori sin dalla fine della prima guerra mondiale firmando allora con l’economista Attilio Cabiati un saggio in cui sosteneva che, per debellare una volta per tutte il virus del nazionalismo, fosse necessario dar vita a una Federazione europea. Personalmente, l’Avvocato riteneva che l’integrazione fosse una condizione indispensabile non solo per la formazione di una grande area economica e di scambi, ma per il progresso delle istituzioni civili e per un’azione più incisiva dell’Occidente europeo sulla scena mondiale agli effetti di un sistema internazionale più equilibrato e multipolare. Dopo l’avvento della moneta unica Agnelli s’augurava perciò che il Vecchio Continente, una volta ricongiuntosi nelle sue diverse parti all’indomani del crollo dei regimi comunisti dell’Est, si affermasse come «un soggetto unico, capace di parlare con una sola voce, e una voce non flebile». Fu questo il filo conduttore del discorso sul tema dei nuovi scenari della globalizzazione da lui tenuto in veste di senatore a vita, nella sua ultima uscita ufficiale, inaugurando nel gennaio 2002 a palazzo Giustiniani un ciclo di lezioni patrocinato dalla Presidenza del Senato. «Quel che c’è da fare — egli asseriva a conclusione del suo intervento — è non perdere mai di vista la necessità di sviluppare un dialogo costante, critico, impegnato, positivo. Un dialogo che sappia promuovere un insieme di valori etici e politici condivisi da tutti, funzionali a gestire i rapporti (e le conflittualità) in quest’epoca di crescente interdipendenza». E ciò in virtù del «patrimonio di cultura e di sensibilità ai valori della tolleranza, della giustizia, dell’equità» di cui l’Europa era depositaria.
L’Unione europea. Non è con questo che l’Avvocato sottovalutasse, insieme alla portata degli ostacoli ancora da superare in vari campi, anche i dilemmi insiti nella definizione di una struttura politica e di governo dell’Unione europea valida nei suoi lineamenti istituzionali e consona alle esigenze dei cittadini.a
A ciascun partner sarebbe perciò toccato il compito di fare del suo meglio nella ricerca delle soluzioni più adeguate e coerenti per la costruzione di un’autentica compagine unitaria. E l’Italia, tra i fondatori della Comunità europea, avrebbe dovuto essere in prima linea su questo fronte. «Aderire all’Europa — aveva osservato nel 1996 durante l’affannosa rincorsa del nostro Paese verso il traguardo dell’euro — non significa appiattirsi su politiche decise da altri, ma essere sufficientemente forti per salvaguardare la propria capacità di influire sulle decisioni».
E ciò significava, a suo avviso, avere non solo le «carte in regola, le credenziali a posto», ma realizzare anche una sostanziale convergenza fra le varie forze politiche sul modo di declinare gli interessi nazionali con le prospettive della Comunità europea. Sia perché un Paese di frontiera come l’Italia (non più fra Est e Ovest, ma tra Nord e Sud) potesse svolgere «un ruolo vitale» nei rapporti della Ue con i Balcani, il Medio Oriente e il Nord Africa. Sia perché, nel confronto fra il modello intergovernativo e quello comunitario, l’Italia divenisse «l’ago della bilancia».
Oggi, nell’anniversario della scomparsa di Agnelli, queste sue riflessioni appaiono tanto più significative alla luce sia dell’esigenza per l’Unione europea di ricucire gli strappi della crisi irakena e della controversia sul trattato costituzionale, sia del rischio che l’Italia venga emarginata da un costituendo direttorio tra Francia, Germania e Gran Bretagna alla testa della nuova e più grande Europa.

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