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Roma, 25 marzo 1957: la solenne firma del Trattato inesistente
di Silvio Fagiolo *


Succedeva giusto mezzo secolo fa, il 25 marzo 1957: era stato il ministro degli Esteri belga Paul Henry Spaak a suggerire che la firma dei Trattati istitutivi della Comunità economica europea e dell'Euratom si tenesse a Roma. Al termine dei negoziati condotti per quasi due anni nel castello della Val Duchesse, alle porte di Bruxelles, si era levato in piedi annunciando: «Propongo che i Trattati siano sottoscritti a Roma, la più augusta delle nostre città, da cui la civiltà è venuta tre volte all'Europa». Così i rappresentanti dei sei Paesi che, avanguardia coraggiosa e forse anche temeraria, avevano preso il largo dal Consiglio d'Europa per costruire la navicella ancora fragile della sovranità condivisa, erano convenuti a Roma in quel giorno di marzo per l'atto solenne e conclusivo.

Erano, gli uomini di Governo raccolti in Campidoglio, quelli che avevano mantenuto fede all'impulso di grandi statisti come Churchill, De Gasperi, Schuman; che avevano suscitato, nel deserto del dopoguerra, i primi tentativi di unione; che non avevano disperato quando progetti ambiziosi, come l'Europa della difesa, erano naufragati sugli scogli di un nazionalismo ancora forte in un continente che pure ne portava ancora i segni delle conseguenze distruttive.

La primavera romana non aveva riservato la migliore accoglienza agli ospiti stranieri giunti nel tardo pomeriggio sul piazzale al quale Michelangelo aveva impresso il sigillo del Rinascimento. Il cielo era restato coperto sin dal primo mattino. Questo non aveva impedito a una folla di curiosi di far quadrato intorno alla statua equestre di Marco Aurelio, la cui mano tesa verso l'alto sembrava voler pacificare la città e il mondo. La pioggia scendeva con scrosci brevi e intermittenti, bagnando le bandiere dei sei Paesi issate sul palazzo senatorio, gli arazzi stesi a festa sui balconi del Campidoglio, mentre i plenipotenziari uscivano in fretta dalle loro limousine. Un vento forte spingeva nuvole nere dal mare verso la campagna romana. Le scuole erano rimaste quel giorno chiuse e l'evento era stato ripreso in eurovisione in tutti i Paesi membri della nuova Comunità.

Adenauer e Segni. Il protocollo italiano aveva messo insieme non senza timori la solenne cerimonia. All'ultimo momento il cancelliere tedesco Adenauer aveva voluto partecipare di persona. Segni per l'Italia aveva fatto lo stesso, ma non i capi di governo di Francia e Benelux, che avevano delegato i loro ministri degli Esteri, salvo il Lussemburgo,rappresentato dal vecchio e saggio primo ministro Bech. I luoghi pur solenni della sala degli Orazi e Curiazi erano angusti in ragione anche della presenza massiccia di fotografi e giornalisti che si disputavano affannosamente lo spazio, i rumori dei loro posizionamenti facevano da sfondo ai discorsi dei ministri.

Le delegazioni erano disposte e avrebbero firmato i trattati secondo l'ordine alfabetico dei sei Paesi nella versione italiana. I tedeschi avevano all'ultimo momento chiesto che i documenti facessero fede anche nella loro lingua e non solo in quella nella quale erano stati negoziati, il francese. Non c'era stato tempo per le traduzioni, che avrebbero dovuto essere allora anche in italiano e olandese e per la stampa di centonovantotto pagine in quattro lingue. Si era allora deciso di riempire, degli spessi volumi, solo la prima e l'ultima pagina, sulla quale i plenipotenziari avrebbero apposto la loro firma per testimoniare l'accordo su un testo in realtà inesistente. Solo pochissimi erano al corrente del ripiego e nessuno se ne sarebbe accorto.

Lungimiranza e tenacia. L'atmosfera austera era carica di una innocente esultanza per la riuscita di un progetto che solo i più lungimiranti e tenaci avrebbero ritenuto possibile due anni prima. Brevi discorsi di circostanza avevano preceduto le firme. Ognuno aveva parlato nella propria lingua. Gli ispiratori non più in vita o assenti, De Gasperi, Sforza, Schuman erano stati evocati ripetutamente dagli uomini di governo che si erano succeduti a parlare, per primo il Ministro degli Esteri Gaetano Martino, il quale aveva salutato «l'inserimento della patria italiana nella più grande patria europea». Adenauer aveva indicato nell'unificazione europea la condizione in grado di far fiorire un giorno quella tedesca. Spaak aveva confidato che le generazioni future avrebbero portato sempre più avanti l'opera appena iniziata. Pineau aveva auspicato per la Francia una partecipazione anche britannica, mentre era già in fase di avanzata maturazione quella crisi algerina che avrebbe riportato al potere proprio il più fiero avversario di essa, il generale de Gaulle. La cerimonia era durata cinquanta minuti appena, i delegati avevano posto le loro firme rapidamente sui volumi, in realtà vuoti, su un grande tavolo di noce coperto da un panno rosso.

Alle due estremità del tavolo le statue di Urbano VIII e di Innocenzo X avevano benedetto con gesto pastorale la nuova avventura, quasi a confermare, come sostenevano alcuni dei suoi avversari,che si trattava in realtà di una congiura cattolica, se non del Vaticano. Dopo l'ultima firma del ministro degli Esteri dell'Olanda Luns, le campane medioevali erano state sciolte sulla torre del Palazzo Senatorio e la loro voce solenne si era mescolata al suono delle trombe dei valletti di Vitorchiano. I Grandi, lasciando il Campidoglio, avevano attraversato in fretta la piazza, fendendo una folla attenta ed immobile sotto gli ombrelli gocciolanti, come animata da una nuova speranza. Essi portavano con se nei rispettivi Paesi molte attese e certamente anche più di un interrogativo. Ma Roma era tornata ancora una volta, in quel tardo pomeriggio di marzo, ad essere, come la aveva definita Spaak, il luogo più augusto della terra.

(*) Ambasciatore d'Italia a Berlino dal 2001 al 2005, Silvio Fagiolo ha lasciato
la diplomazia dopo più di trent'anni di servizio ed è rientrato a Roma, dove insegna
storia dell'integrazione europea alla Luiss. È editorialista del «Sole 24 Ore»



 
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