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Quell'Italia pronta al boom economico



Nel marzo 1957, quando venne firmato a Roma il trattato istitutivo della Comunità economica europea dai sei Paesi che avevano dato vita cinque anni prima alla Ceca, erano in molti in Italia a chiedersi come avremmo potuto reggere una sfida che sembrava assolutamente temeraria. Si era infatti ormai esaurita la funzione propulsiva impressa all'economia italiana dal ripristino degli impianti danneggiati dalla guerra, dal recupero fisiologico dell'agricoltura e dagli aiuti americani. Inoltre la bilancia commerciale registrava saldi attivi solo con la Svizzera e la Germania occidentale. E il Piano Vanoni faceva affidamento, per lo sviluppo del reddito e dell'occupazione, più che una forte crescita degli investimenti industriali, sul volano dell'edilizia e dei lavori pubblici.

In pratica, se sul piano politico l'adesione alla Cee segnava la partecipazione a pieno titolo del nostro Paese al consesso euro-occidentale premiando l'indirizzo perseguito fino ad allora dai governi centristi, numerose erano invece le incognite che un passo così impegnativo presentava sul versante economico. Dato che ci saremmo trovati a competere, senza possibilità di tirarsi indietro a meno di finire ricacciati in un angolo, con la Francia e la Repubblica federale tedesca dotate di strutture e potenzialità assai più robuste delle nostre.

Si trattava tuttavia di una strada obbligata per un Paese come l'Italia con un'economia essenzialmente di trasformazione. D'altra parte, sul fronte della liberalizzazione degli scambi, non si sarebbe potuto procedere che nella stessa direzione di marcia intrapresa nel 1951 (per opera di Ugo La Malfa e con l'avallo personale del presidente di Confindustria, Angelo Costa) con la graduale riduzione dei dazi doganali, ossia intensificando i rapporti commerciali con le nazioni dell'Europa occidentale. E ciò a causa, se non altro, dell'impenetrabilità o quasi per le esportazioni italiane sia dell'Europa comunista dell'Est, sia dell'Africa mediterranea, dell'Asia e dell'America latina che costituivano altrettante aree di pressoché esclusiva pertinenza degli Stati Uniti e delle vecchie potenze coloniali.

Dovendo riconvertire le strutture autarchiche ereditate dal periodo fascista a un sistema di mercato aperto, e non essendo in grado di avventurarsi in nuovi settori di produzione, l'industria italiana concentrò i propri sforzi su quello che costituiva il suo "zoccolo duro", ossia sul blocco siderurgico-meccanico-automobilistico. E i primi risultati positivi si videro già al volgere degli anni 50, dato che sul trend della ripresa economica post-bellica si innestò un nuovo ciclo espansivo. Vennero perciò a cadere certe previsioni pessimistiche che davano per scontato che prima o poi il governo italiano non sarebbe stato in grado di onorare gli impegni sottoscritti. Non fu infatti necessario ricorrere alle "clausole di salvaguardia", richieste e ottenute a suo tempo da alcune imprese industriali, che consentivano in caso di gravi difficoltà il ripristino dei contingentamenti e dei precedenti dazi doganali. Si passò così da uno stato di incertezza e di apprensione a un clima improntato all'ottimismo, anche perché si era manifestata una prima ventata di benessere sociale dopo tante ristrettezze.

In effetti l'economia italiana stava conoscendo una fase di crescita senza precedenti, sospinta dai progressi della grande industria che aveva assunto un ruolo trainante sia per il volume dei suoi investimenti e livelli occupazionali, sia per il suo apporto all'aumento del Pil e al saldo della bilancia dei pagamenti. Protagonisti di questa performance erano, sia pur in diversa misura, i settori dell'automobile, della meccanica di precisione e della metallurgia; della cellulosa e delle materie plastiche; e quelli delle fibre artificiali e dei derivati dal petrolio e dal carbone. A sua volta, il comparto tessile ingranò una marcia più alta.

Diversi fattori assecondarono l'ascesa dell'industria italiana, contribuendo così a migliorarne il grado di competitività. Una parte determinante ebbero, certamente, la disponibilità di un abbondante serbatoio di forza lavoro con una dinamica salariale inferiore a quella dei nostri partner europei (e tuttavia crescente, tale da consentire la progressiva formazione di un mercato di massa per i beni di consumo durevoli) e i prezzi relativamente contenuti delle materie prime di importazione. Ma se l'espansione dell'industria poté avvenire in una situazione di profitti crescenti e quindi con ampi margini di reinvestimento, ciò fu dovuto anche all'adozione di alcune innovazioni tecniche e organizzative mutuate dagli Stati Uniti, che accrebbero la produttività; nonché al basso costo del denaro, reso possibile dalla stabilità monetaria garantita dalla severa azione di vigilanza della Banca d'Italia.

Altrettanto preziosa risultò, per alimentare gli stantuffi dell'industria manifatturiera, il contributo assicurato da più ampie fonti energetiche (dal metano all'energia prodotta da nuove centrali termo-elettriche). È pur vero che non tutto filava per il verso giusto. L'agricoltura non ce la faceva a tenere il passo, nell'ammodernamento delle sue strutture, in quanto svantaggiata sia dalla mancanza di un'adeguata organizzazione del mercato dei prodotti agricoli, sia dall'eccessiva frammentarietà del sistema fondiario. E se intensa continuò a essere la nostra azione diplomatica per un allargamento della Cee alla Gran Bretagna, evidenti erano invece le carenze dell'amministrazione pubblica, per via della sua farraginosità, nell'attuazione delle direttive comunitarie.

In compenso molteplici furono le sinergie stabilitesi fra l'industria privata e quella pubblica (che operava specialmente nei settori di base); né mancò il sostegno delle principali banche ai progetti di sviluppo tanto dell'una che dell'altra. Insomma, un buon gioco di squadra, a cui partecipò anche il governo con una sorta di "protezionismo liberista" (consistente in vari incentivi di carattere strutturale e interventi di natura anticiclica), che rese possibile, insieme al "miracolo economico", l'inserimento a tutti gli effetti dell'Italia nel moto espansivo della Cee.

In questo contesto rivestirono un ruolo importante il Governatore della Banca centrale Donato Menichella (artefice dell'Oscar che nel 1960 premiò la lira come una delle monete più salde del mondo); uomini di finanza come Raffaele Mattioli, Imbriani Longo ed Enrico Cuccia; il leader della Fiat Vittorio Valletta e gli esponenti di alcune dinastie familiari (dai Pirelli agli Orlando, dagli Olivetti ai Falck, ai Marzotto); e manager pubblici come Oscar Sinigallia ed Ernesto Manuelli, a capo della Finsider, Guglielmo Reiss Romoli, alla guida della Stet, ed Enrico Mattei alla testa dell'Eni. Di fatto, il nostro saggio di sviluppo risultò inferiore di poco a quello della "locomotiva" tedesca e largamente superiore a quello di ogni altro Paese europeo; le esportazioni crebbero ogni anno, fra il 1959 e il 1963, di più del 16 per cento; e la quota di merci destinata all'area del Mec (costituita per lo più da prodotti industriali finiti) salì da circa il 22 al 35,5%, per superare poi il 40% nel 1966. E ciò contribuì a mantenere in attivo la bilancia commerciale e i conti con l'estero.

In complesso, benché sia stato rilevante il peso specifico della produzione destinata al mercato interno (rappresentata da beni di prima necessità, da costruzioni e da opere pubbliche), l'economia italiana venne caratterizzandosi da allora in base a un modello di sviluppo export led. Perciò le maggiori imprese, per poter rispondere alla domanda di Paesi a più alto reddito, furono indotte a puntare le proprie carte su una gamma di prodotti con un livello tecnologico intermedio e a eleggere, come requisito fondamentale della loro concorrenzialità, non solo il fattore prezzo ma anche quello della qualità. Fu dunque un "esame di maturità" brillantemente superato quello dell'industria italiana al suo ingresso nel Mercato comune europeo.

20 marzo 2007



 
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