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INTERVISTA /
Lascino la Ue i Paesi scontenti
di Luca Paolazzi

L'Europa è una storia di successo che rischia di trasformarsi in una prigione di insoddisfatti. La sua forza è nel metodo che concilia mercato e politiche pubbliche e nel magnetismo che catalizza profondi cambiamenti nelle nazioni. La sua debolezza è nell’importanza acquisita dagli appuntamenti elettorali nazionali nel disegnare, al ribasso, le innovazioni comunitarie. Di questo passo si rischia il rigetto. Mentre l’Unione europea ha un grande valore etico che può aiutare a risolvere le contraddizioni della globalizzazione. Il rimedio contro l’eurodelusione è concepire la possibilità che i Paesi membri escano dalla casa comune.
A Mario Monti l’europeismo non ha mai fatto difetto. Ben prima che diventasse commissario, nel 1995 al mercato unico e poi alla concorrenza fino al 2004. Un’esperienza preziosa per soppesare valori e fragilità della costruzione europea. Il presidente della Bocconi, 64 anni, partecipa ancora attivamente alla vita politica europea, in particolare attraverso il think-tank Bruegel che guida.
Quali sono i più significativi risultati ottenuti dall’esperienza europea, oltre al successo di "pubblico" con l’allargamento da 6 a 27 nazioni?
Anzitutto, la grande bontà del metodo della costruzione comune, che non è stato usato pienamente. Da questo metodo proviene un magnetismo che spinge i Paesi, che aspirino a entrare o che vogliano partecipare appieno alle innovazioni istituzionali, ad accettare profondi cambiamenti politici, istituzionali e culturali. Sono veri mutamenti di regime che non vengono calati dall’alto. Il metodo europeo conserva intatta la sua freschezza. Ed è l’unico che può risolvere i problemi della globalizzazione, perché si fonda su due semplicissimi pilastri. Primo: accostare l’affermazione del mercato al rafforzamento delle politiche pubbliche, anche se in Europa si è progrediti più sul primo che sulle seconde. Secondo: il valore etico di mettere sullo stesso piano, con il riconoscimento di regole e istituzioni comuni, Paesi grandi e piccoli, potenti e non, vecchi e nuovi.
Però una volta dentro la Ue, la tensione riformista cade.
Perché l’architettura europea presenta incentivi asimmetrici. È molto facile rispettare le regole e amare l’Europa quando si vuole entrare. Non lo è altrettanto dopo. È per questo che i Governi nazionali diventano più indisciplinati e la strategia di Lisbona non si è dimostrata tanto efficace. Il rimedio è aumentare la circolazione di aria nella casa europea, che oggi è forte all’ingresso ma è considerata inconcepibile all’uscita. Ciò rischia di trasformare l’Europa in una prigione di scontenti. Non mi riferisco tanto alla possibilità di espulsione (se ne discusse per l’Austria di Haider), quanto alla scelta di un Paese che non si trovi più bene di lasciare la Ue. Prendiamo la Repubblica Ceca, il cui Presidente Vaclav Klaus ha recentemente affermato che la Ue è una minaccia per la democrazia: che escano, se pensano così di difendere meglio la loro democrazia. Bisogna evitare il continuo ridimensionamento delle iniziative europee causato dall’imminenza di un’elezione in uno dei 27 Paesi e dalla paura che il voto possa essere condizionato dalle decisioni prese a Bruxelles. Il caso della Francia, con due candidati alla presidenza che cercano di catturare il consenso degli scontenti accusando l’Europa, è esemplare. Così si corre il rischio del rigetto dell’Europa.
All’eurodelusione può aver contribuito il disagio provocato dall’euro?
Penso proprio di sì, perché come capita spesso nelle vicende europee gli inconvenienti sono estremamente visibili mentre i benefici sono invisibili. Il changeover ha provocato un gradino una tantum nei prezzi che è entrato in profondità nelle coscienze popolari. Mentre si dimenticano i miglioramenti durevoli che ci sono stati nell’inflazione, nei conti pubblici e nell’adozione di politiche monetarie responsabili. È vero, però, che durante il processo di costruzione e realizzazione dell’euro si è avuto un doppio radicalismo. Quello di chi dichiarava l’impossibilità del progetto, che avrebbe addirittura finito per scatenare guerre. E quello di chi, compreso me, ha enfatizzato forse troppo i benefici attesi in termini di crescita economica. Colpa del marketing europeo, di certo. Ma anche di quei Paesi che avevano più bisogno di incardinarsi nel mercato unico per avere flessibilità e che poi hanno menato colpi di coda proprio contro lo stesso mercato unico e quindi ne hanno ridotto il prestigio. Mi riferisco soprattutto a Francia, Germania e Italia.
Perché questi Paesi non hanno adottato politiche coerenti?
Per una reazione culturale, in via di superamento, dettata dalla convinzione idiosincratica che il mercato fosse un’istituzione anglosassone. Perciò hanno ritardato o annacquato molte direttive che avrebbero rafforzato il mercato unico. E anche perché l’euro stesso ha fatto da schermo protettivo, eliminando o attutendo i segnali di allarme percepibili dalla pubblica opinione.
L’Europa unita è anche il rimedio alla perdita di peso dei singoli Paesi europei nel contesto globale?
Con tutti i suoi limiti, la Ue è l’unico modo che abbiamo per far valere i nostri interessi nei consessi internazionali. Al negoziato per la Wto così come nella contrattazione per le forniture di gas e petrolio dalla Russia. In un recente studio di Bruegel, si è provato ad applicare i criteri comunitari alla politica di approvvigionamento energetico. Dove il frequente ripresentarsi di momenti di crisi, in analogia con le vicende monetarie che prepararono il terreno alla nascita della moneta unica, faciliterà la cessione di sovranità nazionale. Non tutte le politiche devono salire a livello comunitario. Alcune possono ridiscendere in parte a livello nazionale, come è accaduto per la tutela della concorrenza dopo il 2004. Deve esserci un continuo monitoraggio e ridisegno. Per l’energia penso che il livello comunitario oggi sia quello ottimale.
Cosa è mancato a livello europeo nelle politiche per la crescita?
Ci sono state carenze comunitarie. Ne cito due. La normativa sull’Opa, che è stata fatta male, tanto è vero che c’è una rete di deroghe e condizioni di reciprocità che fa a pugni con il metodo europeo e richiama il concerto di nazioni; cosicché si fanno viaggi politici tra le capitali per dossier che dovrebbero competere a manager e azionisti. E il brevetto, dove c’è il problema della lingua: la diversità culturale è importante, ma su alcune questioni è più rilevante l’efficienza. Ma la cosa peggiore è chiamare o rappresentare come europei i fallimenti di politiche i cui strumenti sono saldamente nelle mani dei Governi nazionali. Mi riferisco per esempio a Lisbona. Se si evita l’imbroglio delle competenze e si è più chiari diventa anche più sensata la critica. Per esempio, la Commissione non dovrebbe esitare a stilare graduatorie e assegnare punteggi alle politiche nazionali; non si farà degli amici, ma ciò non rientra nella sua missione. Infine, si possono immaginare alcuni progetti di politica industriale a livello comunitario.
Il caso Airbus non è promettente.
Il problema Airbus è reale e molto grave ma non è stato provocato dall’Europa comunitaria. Quel che la Commissione poteva fare l’ha fatto, autorizzando la concentrazione che ha portato alla nascita di Eads. Invece, oltre a pecche industriali, Airbus paga l’incoerenza tra management e influenze politiche. È un problema schiettamente intergovernativo, cioè dei rapporti tra Francia e Germania.
Siamo sempre alla difesa dei produttori. Quando arriverà la piena tutela dei consumatori?
È in corso la rapida affermazione dell’interesse del consumatore e della comprensione che politiche orientate alla sua tutela finiscono per giovare anche i produttori. Infatti, stimolano la concorrenza e creano mercati più efficienti. Ciò attrae investimenti e nuovi attori, come dimostra proprio l’esperienza dei Paesi più attenti alla difesa dei consumatori. D’altronde, dietro al patriotisme économique spesso c’è, più che la Patrie, la presenza di qualche patron in carne e ossa. In Italia il cambiamento è molto evidente: nessuno fino a poco tempo fa si sarebbe interessato, a destra come a sinistra, dei consumatori. Il rischio, semmai, è che ciò si cristallizzi come moda, senza trarne tutte le implicazioni.



 
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