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Cohen «Nella società post-industriale l'idea è più importante della produzione»
Nel mondo postindustriale cresce il divario fra mondo virtuale e mondo reale, ma anche fra chi produce i beni, generalmente lavoratori dei Paesi poveri, e chi li inventa o li commercializza, a cui vanno i benefici maggiori. In quanto alla politica, essa non controlla più i processi economici, anche perché grazie alla globalizzazione più aumenta la pressione nei confronti delle imprese più esse delocalizzano, trasferendosi in parte o in toto dove esistono meno vincoli. Bisogna pertanto inventare strumenti e meccanismi d'intervento nuovi per far fronte ai nuovi bisogni e ai nuovi problemi che si vengono a creare a mano a mano che si allarga la frattura fra modi di produzione e sistemi di protezione sociale. Non induce a facili ottimismi l'analisi proposta da Daniel Cohen, docente alla Scuola Normale superiore di Parigi e alla Sorbona e membro del Consiglio d'analisi economica del Primo ministro.

Introdotto da Francesco Manacorda, giornalista della «Stampa», al Festival dell'Economia giovedì 31 maggio Cohen ha esordito spiegando che nella società postindustriale non solo sono diventate obsolete le vecchie forme di welfare ma si sono anche allentati i legami che in passati tenevano assieme i produttori e i loro dipendenti: legami dati anche dalla loro vicinanza fisica, dal fatto di lavorare nello stesso luogo, la fabbrica, e di abitare nella stessa città, pur se in quartieri diversi. «Oggi l'industria ha abbandonato la società», ha detto Cohen, e i risultati sono disoccupazione, malessere, esplosioni di apparente "follia" come la rivolta delle «banlieues» francesi di un paio d'anni fa.

Di capitale umano parlava già Adam Smith nel Settecento, quando preconizzò la divisione del lavoro in una filiera di abilità individuali come strumento per produrre di più. Quello di Smith era un capitale di abilità, magari anche manuali, ma pur sempre una cosa diversa dal capitale "terra" che era stato considerato fino ad allora il metro unico di giudizio per considerare un uomo. Oggi quel capitale è un patrimonio individuale di conoscenze e di saperi individuali, di cui l'intera comunità può beneficiare se adeguatamente sviluppato e utilizzato.

Questo in sintesi l'intervento del giornalista-economista inglese Brian Keeley a Trento, che ha richiamato nel chiostro dell'ex-convento degli Agostiniani, oggi sede locale dell'Ocse, un pubblico folto e interessato. Molti, moltissimi giovani sotto il tendone. Keeley, presentato da Enrico Franco, direttore del «Corriere del Trentino» (inserto locale del «Corriere della Sera»), non si è tirato indietro, nel dare spessore alla sua analisi, nell'indicare le prospettive future e nel mettere al centro dell'attenzione del pubblico italiano riunito a Trento lo stato «confusionale e in ritardo» proprio dell'Italia.

«L'Italia, per il numero di anni che mediamente un individuo trascorre a scuola, è al 26° posto, sui trenta Paesi aderenti all'Ocse. Da voi si studia per dieci anni, in Norvegia per 15. Nel livello di istruzione e nella capacità di usare l'istruzione ricevuta, l'Italia è al 15° posto. Nel particolare indice dei talenti, che misura l'apporto allo sviluppo di un Paese che viene dalle arti, dagli inventori, dai progettisti, dagli artisti, l'Italia è quattordicesima su quindici Nazioni. In Italia un lavoratore si aggiorna per quattro ore all'anno; in Svezia un suo collega ne utilizza 40. E bisogna investire soprattutto nell'istruzione dei bambini. Il 40% degli adulti italiani tra i 24 e i 34 anni hanno qualifiche basse, quindi un capitale umano al di sotto della sufficienza; solo lo 0,5% degli studenti italiani riesce ad arrivare a un dottorato di ricerca, in Svizzera si raggiunge lo 2,5 per cento».

Ma allora che cosa ci manca? Gli investimenti. «Bisogna rendersi conto che investire in cultura, in formazione, in formazione professionale e in aggiornamento permanente significa assicurarsi una ricaduta anche economica, oltre che sociale – ha concluso Keeley. – Bisogna investire, ma non solo nell'alta ricerca, non solo nell'Università: bisogna investire soprattutto nei bambini piccoli. È dimostrato che un euro investito in età prescolare, quando l'individuo è così giovane da essere in uno stato quasi perfetto per l'apprendimento totale, genera una ricaduta alla millesima potenza nel corso dell'esistenza di quella persona».

31 maggio 2007

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