La scure della Finanziaria per gli arbitrati si abbatte su tutte le pubbliche amministrazioni. Non solo quelle statali, ma anche tutti gli enti locali, gli enti pubblici non economici e persino le società miste (anche con una partecipazione pubblica minoritaria) dovranno rinunciare alla giustizia privata.
L'articolo 86 della Manovra, infatti, non lascia scampo e vieta a tutte le amministrazioni pubbliche di inserire la clausola arbitrale nei contratti di appalto sia di lavori, che di servizi e di forniture.
Il divieto è addirittura retroattivo: mentre la legge infatti sarà in vigore dal primo gennaio nei contratti in essere non possono più essere costituiti collegi arbitrali già a far data dal 30 settembre.
Uno stop assoluto che nelle intenzioni del ministro delle Infrastrutture, Antonio Di Pietro, dovrebbe avere un immediato impatto moralizzatore sul settore. Ancora oggi infatti, nonostante i tentativi di mettere un freno ai compensi dei giudici privati e di «imbrigliare» i giudizi in un organismo neutro quale la Camera arbitrale presso l'Autorità di vigilanza sui contratti pubblici, quello degli arbitrati è un filone redditizio solo per i giudici privati. Non certo per le casse pubbliche: ancora nel 2006 – secondo i dati resi noti dalla Camera arbitrale – le pubbliche amministrazioni sono risultate perdenti nel 65% dei casi, per un costo totale da pagare (tra risarcimenti e indennizzi) pari a 291 milioni.
E i dati dimostrano che non regge neanche l'argomento più utilizzato dai sostenitori dell'arbitrato: la celerità dei giudizi. Che appunto tale non è: solo una minoranza degli arbitrati si conclude entro il termine ordinario previsto per la pronuncia del lodo. In alcuni casi invece gli arbitrati hanno avuto una durata di 700 giorni.
Come se non bastasse, proprio nel campo dei lavori pubblici per una svista del decreto Bersani (corretta poi da Di Pietro dal primo agosto scorso) è ripresa senza limiti la «manna» delle maxiparcelle: in pochi anni si è passati dalle tariffe calmierate imposte da un decreto nel 2000 alle super liquidazioni caricate di indennità e maggiorazioni.
Il primo colpo lo ha assestato il Consiglio di Stato con una sentenza che nel 2003 ha riaperto le porte agli arbitrati «liberi», cioè non gestiti dalla Camera arbitrale dove libero è anche il compenso che il collegio si può autoliquidare.
Da allora la fantasia dei giudici privati nell'interpretazione di tariffe e tabelle si è sbizzarita arrivando sempre a caricare la parcella fino all'importo massimo consentito dalla stessa tariffa.
Nel 2006 poi il decreto Bersani ha addirittura sostituito le vecchie tariffe con quelle degli avvocati, molto più generose.
Il regalo è piaciuto agli arbitri. Tanto per fare un esempio, tra quelli riportati dalla Camera arbitrale: per una lite del valore di 115 milioni le tariffe del 2000 riconoscevano 418mila euro di parcella che salgono a 797mila con il decreto Bersani (applicato però dalla stessa Camera) e schizzano a due milioni di euro quando a fissare il compenso è il giudice stesso.
Una prassi comune: su 44 lodi «autogestiti» nel 2006 solo 16 non hanno sfruttato compensi ultratabellari. Altri 16 invece hanno raddoppiato o triplicato la parcella con maggiorazioni che arrivano fino al 150%.
Ora la Finanziaria rende impossibile qualsiasi nuovo arbitrato. Un intento moralizzatore che rischia però di avere ripercussioni negative sui contratti di alcune società partecipate dallo Stato.
L'arbitrato è infatti uno strumento comune, addirittura richiesto in via obbligatoria nei contratti internazionali. Le imprese più esposte verso l'estero potrebbero quindi vedersi rifiutare dei contratti.
La cancellazione degli arbitrati avrà, comunque, vantaggi diretti sull'amministrazione della giustizia ordinaria: la Finanziaria prevede infatti che ogni anno si provi a quantificare i risparmi ottenuti e a girare i fondi «al Ministero della Giustizia per il miglioramento del relativo servizio».