E alla fine Petacchi risorse come Lazzaro
di Dario Ceccarelli


E vai. Trecento metri che non dimenticherà per tutta la vita. Alessandro Petacchi, con un fantastico sprint sul filo dei 75 all'ora, chiude qui a Cagliari la sua personalissima via crucis cominciata un anno fa in Belgio con una caduta devastante che gli costò la rottura di un ginocchio. Un anno di tormenti, di paure, di critiche, di parole a mezza voce. Soprattutto di sfiducia. Una sfiducia cattiva che leggeva sui giornali, negli occhi dei compagni, nel silenzio dei tifosi. Un grumo di rabbia e di frustrazione che esplode come dinamite nell'istante in cui taglia il traguardo dopo un galoppata di 300 metri sul pavè.
Prima le braccia al cielo, poi un pianto liberatorio che non finisce più. "Sì, sono felice, ora non mi romperete più le scatole: l'avevo detto che vincere qui al Giro, dopo tutto quello che mi è successo, sarebbe stato come tornare a vincere la prima tappa, come ricominciare daccapo. Per me questo incidente è stato devastante. Ho dovuto ricominciare piano piano a pedalare. C'era una signora di 90 anni che si muoveva meglio di me. Ho pensato seriamente di smettere. Temevo di non farcela a tornare quello di prima. Devo ringraziar mia moglie, Albachiara, che mi ha sempre sostenuto. Dedico questa vittoria a due miei amici: a Michele Bartoli, e a una persona che mi è stato sempre vicino come un padre".
Dato quasi per finito, Petacchi risorge come un Lazzaro del pedale dimostrando quanto la vita sportiva sia spesso attaccata all'esile filo della malasorte. La stessa malasorte che, 400 metri più indietro, ha fatto volare sull'asfalto Hushovd, un rivale di volate che cercava di trovare un varco in mezzo al gruppo. Una caduta rovinosa che trascina per terra anche Damiano Cunego e Gilberto Simoni, i due storici duellanti per la maglia rosa. Nulla di grave per fortuna. Entrambi infatti, con qualche ammaccatura, risalgono in sella senza troppi problemi.
Bella, questa terza tappa che dal cuore della Sardegna riguadagna il mare finendo a Cagliari. Sole, vento in faccia, eucalipti e pini marittimi, calette segrete e acqua verde smeraldo. Un paesaggio stordente che fa da sfondo a una fuga di oltre 170 chilometri. Alla fine, a meno quattro dal traguardo, i due superstiti, Giovanni Visconti e Michael Ignatiev, vengono riassorbiti come granelli di polvere dal gruppo. Non c'è spazio per la poesia della fuga, le squadre più importanti fanno il loro mestiere portando al traguardo i velocisti. Tra questi, incredibile ma vero, c'è anche Enrico Gasparotto, il perfido Franti della Liquigas, che grazie al gioco dei piazzamenti riesce ancora a sfilare la maglia rosa al suo capitano, Danilo Di Luca. Ma questa volta pare che ci fosse un accordo preciso. Almeno così conferma il capitano. E questa volta senza scomodare i santi in paradiso.