Stimare le dimensioni reali del lavoro "nero" è - per definizione - una operazione impossibile. Secondo dati CNEL, In Italia la percentuale di lavoratori irregolari costituirebbe circa il 23 per cento del totale della forza lavoro. All'interno di questa area di irregolarità, il 45 per cento dei lavoratori non risulterebbe iscritto al libro paga delle imprese, il 36 per cento svolgerebbe un doppio lavoro e circa il 15 per cento sarebbe rappresentato da stranieri in gran parte clandestini. Per quanto riguarda il Mezzogiorno, i rapporti annuali della SVIMEZ ci segnalano con costanza che un lavoratore su tre sarebbe irregolare. Nel 1998 l'ISTAT stimava in 3.464.000 i lavoratori non regolari, pari al 15,1 per cento del totale. Si tratta, comunque, di stime poco affidabili.

Tra le molte incertezze, un dato pare fuori discussione: assieme alla Grecia (si veda l'articolo qui sotto), l'Italia è ai vertici della classifica sulla incidenza della economia sommersa sul Pil. La situazione è particolarmente grave nel Mezzogiorno per gli intrecci con i bassissimi livelli di occupazione e con forme di economia criminale. Nessun dubbio, dunque, che il problema della economia sommersa rappresenti una questione centrale per la qualità dello sviluppo e per l'obiettivo della buona occupazione, in particolare (ma non solo) per il Mezzogiorno.

La soluzione accolta dai precedenti Governi, di contratti di riallineamento retributivo, se certo rappresenta una innovazione nelle strategie di emersione del sommerso, in quanto affianca alla logica repressivo-sanzionatoria una prospettiva di tipo promozionale e incentivante, non pare tuttavia in grado di fornire risposte reali ai problemi del lavoro nero. Il vero limite dei contratti di gradualità è che cercano di neutralizzare temporaneamente, con un incentivo economico, il disincentivo alla regolarizzazione rappresentato da norme che risultano impraticabili in alcune aree del Paese senza incidere sulle cause che inducono le imprese e i lavoratori a fuoriuscire dal mercato del lavoro regolare.
Il fenomeno del lavoro nero alimenta anche un circuito perverso: i bassi tassi di occupazione regolare restringono la base imponibile e, con essa, il gettito fiscale necessario per alimentare la spesa pubblica. La conseguenza è o un inasprimento della pressione fiscale, con conseguente spinta alla immersione nel lavoro regolare, o un contenimento della spesa per occupazione, politiche attive del lavoro, infrastrutture ecc.

Una strada, non la sola, per contrastare il lavoro nero potrebbe essere quella di agire sulla leva fiscale, come peraltro suggerito dalla Commissione Europea e realizzato in alcuni Paesi europei. Da questo punto di vista la riforma forse più interessante è stata adottata nel 1999 dal Governo danese, che ha deciso la riduzione della tassazione dei redditi marginali, come è avvenuto anche in Svezia, da un'aliquota media del 52% al 38%, ritoccando comunque anche l'imposizione dei redditi più elevati, nell'ottica di un rilancio della generale propensione al consumo.
L'esperienza comparata è abbastanza univoca nell'indicare come la modernizzazione del mercato del lavoro sia la vera strada per l'emersione del lavoro nero e la lotta alla economia sommersa. Si pensi, per fare qualche ulteriore esempio, agli sforzi di diminuzione del divario in termini di costi (economici e normativi) tra lavoro regolare e lavoro irregolare di Paesi quali l'Irlanda, l'Austria e la Svezia su cui si stanno ora orientando anche Paesi come la Grecia e la Spagna che presentano percentuali di lavoro irregolare paragonabili alle nostre. Interessanti sono anche le iniziative volte a prevenire la dissimulazione dei contratti di lavoro adottate recentemente in Grecia, Spagna, Finlandia, Portogallo e Austria mediante modifiche alla legislazione lavoristica. Una prospettiva tentata qualche anno fa anche da noi mediante il meccanismo di "certificazione" dei rapporti di lavoro proposto dall'allora Ministro del lavoro Tiziano Treu e che risulterebbe quanto mai efficace per discernere le forme genuine di lavoro autonomo e coordinato da quelle fittizie

A spingere nella direzione della modernizzazione del mercato del lavoro è del resto l'Unione Europea che, a più riprese, ha avvertito l'Italia circa l'incompatibilità con il diritto comunitario della concorrenza di politiche di incentivazione all'emersione (come il già ricordato caso dei contratti di riallineamento) che favoriscono in modo selettivo alcune imprese. L'articolo 87, paragrafo 1, del Trattato CE assicura il controllo comunitario su un vasto numero di interventi nazionali e, precisamente, su qualsiasi attribuzione a titolo gratuito di un vantaggio economicamente apprezzabile, a prescindere dalla finalità della misura. Nessuna rilevanza viene attribuita non solo alla forma delle misure, ma anche alla finalità per la quale sono state adottate.

L'obiettivo di combattere la disoccupazione, contribuire alla emersione di aree di lavoro "nero" e sostenere la creazione di nuova occupazione non è dunque di per sé sufficiente per sostenere la legittimità dell'intervento pubblico di sostegno al funzionamento delle imprese interessate dal provvedimento. Accanto agli aiuti o sovvenzioni che rappresentano misure generali, le uniche azioni statali ammesse sono quelle che si pongono nella prospettiva della modernizzazione del mercato del lavoro. Si pensi agli aiuti all'orientamento, alla formazione o alla consulenza del disoccupato propri di un efficiente sistema di servizi per l'impiego.

Non è più possibile oggi mantenere inalterato un sistema di diritto del lavoro e di relazioni industriali che per vari aspetti non pare sufficentemente conforme alle indicazioni comunitarie ed alle migliori prassi derivanti dall'esperienza comparata. Il lavoro "nero" non è un male incurabile, a condizione che si accettino fino in fondo le dinamiche di una corretta competizione tra imprese. Occorre rivedere, in altri termini, il nostro sistema lavoristico alla luce degli assetti normativi e contrattuali esistenti altrove. Per arginare il fenomeno del lavoro nero non c'è che un modo: competere con regole se non identiche, almeno comparabili.