Il G-8 ha dibattuto vari temi connessi alla globalizzazione, ancorché oscurati dalla follia di chi vuole solo demonizzare questo fenomeno e non governarlo. Con il risultato che quasi nulla è stato detto su un argomento centrale: l'occupazione. Il comunicato finale di Genova le dedica poche righe, con il semplice auspicio che vengano assunte iniziative per assicurare un "invecchiamento attivo" della popolazione.

Troppo poco per un vertice convocato per dare indicazioni all'intero pianeta. Praticamente nulla se si pensa che, assieme alla questione ambientale, proprio la dimensione sociale della globalizzazione rappresenta uno dei punti di maggiore sofferenza di uno sviluppo socialmente sostenibile.

Non a caso Genova è figlia di Seattle: bisogna riconoscere che poco o nulla si è fatto per dare una risposta al mondo del lavoro, che stenta a adattarsi alla caduta delle frontiere economiche.
Mentre l'economia si è globalizzata, le parti sociali, e in particolare i sindacati, restano organizzazioni domestiche, chiuse nella propria dimensione nazionale. Le strategie delle grandi imprese multinazionali sono così rapide e imprevedibili, da non lasciare spazio a vere controproposte delle organizzazioni sindacali.

Prendiamo il caso Danone, tanto discusso nelle scorse settimane a causa dei tagli occupazionali programmati (peraltro debitamente notificati ai rappresentati dei lavoratori, e in parte compensati da assunzioni fuori dalla Francia): che senso ha insistere in un confronto endoeuropeo, quando dei quasi 90mila dipendenti del gruppo francese oltre un terzo è già occupato nella Repubblica popolare cinese? É conveniente contrastare processi di riorganizzazione in Europa, se il risultato è accelerare le spinte alla delocalizzazione? Come si può criticare una multinazionale francese, che in media impiega due anni per chiudere uno stabilimento, se concentra le proprie attività in Oriente e in America Latina?

É dalla metà degli anni 90 che i capi di Stato e di Governo girano attorno a questi problemi. L'ultimo comunicato di Genova assomiglia molto a una resa, e la promessa di ammettere le parti sociali agli incontri con gli otto Grandi sembra un palliativo.

La Wto non è riuscito a venire a capo della dimensione sociale della globalizzazione a causa del rifiuto dei Paesi in via di sviluppo del meccanismo della "clausola sociale". Fin dal 1998 l'Organizzazione internazionale del lavoro ha imposto a tutte le nazioni aderenti di rispettare una carta di diritti fondamentali. Ma tutto ciò non basta: spesso si tratta di dichiarazioni di principio che lasciano le cose come stanno.
Le risposte più convincenti non provengono dai G-8, ma dagli accordi liberamente sottoscritti da un crescente numero di imprese multinazionali con interlocutori sindacali spontaneamente riconosciuti. Gli ultimi esempi, in ordine di tempo, riguardano la svedese Skanska (costruzioni), la francese Carrefour (commercio), la spagnola Telefònica (telecomunicazioni). In questi casi la globalizzazione delle relazioni industriali è già una realtà: pochi diritti di base chiaramente riconosciuti - non solo il divieto del lavoro minorile e forzato, ma impegni antidiscriminatori e di qualità sul lavoro per salario e orario - monitorati bilateralmente, con la garanzia di clausole arbitrali internazionali che producano lodi vincolanti accettati in anticipo dalle parti. Per dare concretezza a uno sviluppo socialmente sostenibile della globalizzazione a poco servono le solenni proclamazioni dei vertici internazionali, e ancor meno le manifestazioni di piazza.

Occorre invece un salto culturale e organizzativo dei rappresentanti dei lavoratori, capace di cogliere gli sviluppi di un'economia mondializzata che rischia di vanificare assetti regolatori costruiti nell'ambito di contesti nazionali.
Il confronto tra parti sociali a livello aziendale, specialmente di multinazionali, si propone come la sede naturale per ricercare un nuovo equilibrio nella tutela del lavoro dipendente. Ma questa conclusione sembra valere per tutte le imprese. C'è una soglia di diritti fondamentali che devono essere osservati con rigore, mentre al di sopra deve valere il libero accordo, che coglie le specificità della singola impresa e del mercato del lavoro circostante.
Gli assetti regolatori costruiti a livello nazionale non tutelano più i dipendenti delle imprese globalizzate. É tempo di costruirne altri, più duttili ma più efficaci.