Grazie alla iniziativa di questo giornale (si veda <Il Sole-24 Ore>di domenica 27 gennaio), ora tutti sanno che una modifica dell'articolo 18 dello Statuto dei lavoratori non è una novità nell'agenda politico-sindacale italiana. Il documento votato dal Cnel il 4 giugno 1985 è assai chiaro a riguardo. Si affermava infatti in quel lontano (ma attualissimo) testo che <complessivamente l'esperienza applicativa dell'articolo 18 dello statuto non suggerisce un giudizio positivo della reintegrazione>.

Nessuno vuol sostenere naturalmente che proposte elaborate oltre tre lustri addietro siano necessariamente valide ancor oggi. Tutti siamo consapevoli del fatto che ogni prospettazione deve essere collocata in un preciso contesto politico-sindacale di riferimento. Eppure in questa materia le ragioni di quella scelta furono condivise (e comunque mai avversate) da uomini come Luciano Lama, Pierre Carniti e Giorgio Benvenuto, oltre che da Vittorio Merloni. Nomi autorevoli di personalità che hanno lasciato un solco profondo nella storia delle organizzazioni di cui furono alla guida. Esponenti di un approccio riformista che non dovrebbe lasciare insensibili i leaders attuali di Cgil, Cisl e Uil.

Quale lezione trarre dall'aver rievocato questo importante passaggio del dibattito giuslavoristico? Innanzitutto non è possibile nascondere un interrogativo: perché mai Cisl e Uil avrebbero cambiato idea? Forse che nel frattempo la reintegrazione si è estesa come meccanismo sanzionatorio in altri Stati membri dell'Ue? Assolutamente no. Può affermarsi che questo meccanismo sanzionatorio si è rivelato sorprendentemente efficace? Neppure. Anzi, semmai è vero l'esatto contrario: sempre meno sono i lavoratori coperti da questa forma di tutela e più rari risultano i casi di effettiva reintegrazione.

Le proposte del Governo di revisione dell'articolo 18 sono in ogni caso ben più modeste. Nel 1985 nessuno prospettava alcuna forma di sperimentazione: ogni riforma avanzata in materia avrebbe dovuto avere carattere strutturale. Non solo, ma oggi il problema è impostato in un'ottica promozionale dell'occupazione per promuovere la diffusione del lavoro di buona qualità, quindi innanzitutto del contratto di lavoro a tempo indeterminato. Una logica da un lato più ambiziosa (far crescere anche in questo modo il tasso di occupazione), dall'altro più limitata (sospendere la reintegrazione solo in una prospettiva premiale per i neo-assunti, per incoraggiare la trasformazione dei contratti a termine e combattere il nanismo delle nostre imprese).

Certo, tra un documento del Cnel ed una proposta avanzata da un Governo che gode di un'ampia maggioranza parlamentare esiste una considerevole differenza. Ed anche scontando il fatto che il documento del Cnel fu a lungo elaborato con l'ampio coinvolgimento di numerosi esponenti (ed esperti) di varie aree politico-sindacali, resta pur sempre l'enorme differenza di accoglimento delle proposte: di condivisione, allora, mentre oggi si agita il fantasma dello sciopero generale.

Resta francamente incomprensibile il rifiuto di discutere di questa problematica, al punto da oscurare tutti (o quasi) gli altri problemi di riforma del mercato del lavoro. La proposta di delega del Governo è infatti assai ricca e per certi aspetti ben più innovatrice rispetto alla semplice idea di rivedere sperimentalmente la reintegrazione a seguito di licenziamento illegittimo. Valga per tutti la prospettazione di introdurre nel nostro ordinamento lo staff leasing: un'eventualità di fronte alla quale nessun sindacalista si è ancora stracciato le vesti.

Le soluzioni per ripensare l'articolo 18 sono ovviamente innumerevoli. Ciò che conta è intendersi una volta per tutte che non è affatto in discussione il principio del licenziamento giustificato, cardine del nostro ordinamento nazionale in omaggio a principi universalmente riconosciuti (almeno in Europa). É senz'altro possibile, durante il dibattito parlamentare, formulare ipotesi diverse, ad esempio più focalizzate sulla promozione dell'occupazione al Sud ovvero a favore di soggetti con particolare rischio di emarginazione sociale. Sarebbe davvero auspicabile che si tornasse con serenità a confrontarsi sul merito, ad esempio su cosa si intenda per equo indennizzo al lavoratore ingiustamente licenziato. É quello che il Presidente della Repubblica ha chiesto con tutto il peso del suo prestigio e della sua autorità, politica e morale: la maggior parte degli italiani è sicuramente d'accordo con lui