La nuova stagione politica si è inaugurata con un rito vecchio o comunque tradizionale: lo sciopero dei metalmeccanici del 18 maggio. Anche se questa vertenza è per la verità in atto da tempo, non si può non constatare che siamo alle solite, anche perché la categoria dei metalmeccanici ha sempre fatto scuola quanto a strategie sindacali. Sarà mai possibile intavolare con il sindacato un discorso di modernizzazione del Paese? Il sindacato è, almeno nel contesto europeo, un interlocutore con cui bisogna solo rassegnarsi ad aver comunque a che fare, cercando di contenere i radicalismi di categoria, oppure potrebbe anche diventare un partner per un disegno di modernizzazione del mercato del lavoro e delle relazioni industriali?

Proviamo a rispondere a questo interrogativo cominciando dall'Europa comunitaria. Innanzitutto a livello dell'Unione Europea e in numerosi Stati membri esiste una situazione di unità (o, almeno, di unitarietà) delle diverse componenti sindacali, raccolte nella Confederazione Europea dei Sindacati (Ces). Anche nel Regno Unito e in Germania il Governo e gli imprenditori hanno a che fare con centrali sindacali unitarie, così come avviene negli Stati Uniti e in Giappone. Non a caso in questi contesti il sindacato coopera con maggiore convinzione in una logica di modernizzazione. Nei Paesi invece che, come l'Italia, registrano la convivenza di più organizzazioni, caratterizzate per diverse tradizioni se non addirittura per vari orientamenti politici, si avverte una maggiore resistenza al cambiamento. Anche in Francia e in Spagna si verifica una contrapposizione fra centrali sindacali che sovente si traduce in un rallentamento, quando non addirittura in una opposizione frontale, al fine del raggiungimento di intese avanzate.

Ma, così argomentando, si presuppone l'esistenza di un disegno modernizzatore con il quale confrontare il comportamento delle singole organizzazioni sindacali. E, in effetti, oggi questo dato per operare un benchmarking intrasindacale esiste. Si tratta delle linee-guida per l'occupazione, un caso di soft law che ogni anno viene concordata fra gli Stati membri dell'Unione. Principi quindi vincolanti per tutti, sindacati compresi.

Dunque il sindacato che voglia recepire le indicazioni comunitarie (al pari, ben si intende, degli imprenditori) deve assumere innanzitutto che il modello sociale europeo non debba rimanere tale e quale ma occorrano interventi di modernizzazione. Già su questo le componenti più radicali in Spagna, Francia e Italia, dissentono. Ed invece le linee-guida sull'occupazione sono chiare. Parlano di adattabilità, di tipologie flessibili che realizzino un equilibrio ragionevole tra flessibilità e sicurezza dell'impiego, reclamano quindi la revisione dell'attuale quadro regolatorio dei rapporti di lavoro. Esistono insomma a livello comunitario indicazioni ben chiare su quale sia la strada da percorrere.

Troppo spesso anche i sindacati italiani parlano di Europa ma disinvoltamente non tengono in alcun conto le indicazioni che da essa provengono. Dimenticando anche quelle nettamente a loro favore, come la linea guida per l'occupazione per il 2001 che impone entro il 2003 di assicurare ad ogni lavoratore un'opportunità di informazione per combattere l'analfabetismo informatico. Forse ragionando di più nell'ottica comunitaria e prestando meno attenzione alle logiche politiche interne, anche il movimento sindacale italiano potrebbe nel suo complesso diventare un elemento di modernizzazione del Paese. Vivere come un assedio l'evoluzione della società e dell'economia non fa che accelerare il declino del sindacato. Limitarsi ai veti e alle scomuniche potrebbe alimentare in alcune componenti sindacali un sentimento antieuropeo che alla fine sarebbe un danno per tutti.