22 aprile 2007 |
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Parmalat, il grande ingannodi Giuseppe Oddo |
Due interessi si contrappongono nel processo per il crack Parmalat di cui si celebra da quasi un anno, a Parma, l'udienza preliminare. Da un lato quello della Procura e del giudice, che stanno compiendo ogni sforzo per arrivare in modo spedito al dibattimento; dall'altro quello dei risparmiatori che si sono costituiti parte civile. I quali, oltre che nella rapidità, confidano nell'efficacia del processo, ossia nella speranza di portare a casa qualche soldo.
Queste due esigenze spesso fanno a botte. Per snellire il processo e renderlo più veloce, il Gup Domenico Truppa ha respinto, nei mesi scorsi, d'accordo con la Procura, la richiesta delle difese di riunire le varie inchieste su Parmalat in un'unica maxiudienza preliminare. Secondo il Tribunale, la riunione avrebbe infatti dilatato i tempi già defatiganti dell'attività giudiziaria, finendo per favorire quegli imputati che, come Calisto Tanzi, cercano di tirare quanto più in là, sperando nella prescrizione. Peraltro, tra quanti hanno l'interesse ad allungare i tempi vanno anche annoverati gli istituti di credito accusati di concorso in bancarotta. I cui procedimenti - a parte quello sulla Ciappazzi, anch'esso in udienza preliminare, che vede coinvolta l'alta dirigenza di Capitalia - si trovano a vari stadi di avanzamento e in qualche caso non sono ancora nemmeno arrivati alla fase di chiusura delle indagini.
Per snellire il processo, però, si è finito per spezzettarlo in tanti piccoli filoni che oggi convivono accanto a quello principale, in cui è imputato Tanzi: una decisione che non ha convinto nemmeno il commissario straordinario Enrico Bondi, che ha il merito di avere rimesso in piedi Parmalat e di averla riportata in Borsa. E anche il "troncone" principale a mano a mano sta sfoltendosi per le richieste di patteggiamento e di riti abbreviati già accolti dal giudice, che hanno fatto scendere, finora, il numero degli imputati da 62 a 35. Questo è certamente un bene, perché un Tribunale e una Procura di provincia hanno risorse limitate, e gestire un dibattimento con meno imputati consente di arrivare più presto al giudizio finale. Ma è anche un male se la duplicazione delle fasi preliminari accresce il lavoro dei magistrati e determina uno spreco di udienze.
Senza contare i problemi per i risparmiatori. Per gli obbligazionisti che hanno visto andare in fumo i loro risparmi è infatti essenziale costituirsi parte civile nei processi contro le banche, là dove risiede la concreta speranza di poter ottenere, almeno in parte, la riparazione del danno. Ma se il processo non sarà uno solo, se si andrà verso lo "spezzatino", essi saranno obbligati a costituirsi in ognuna delle cause contro le banche, con disagi e aggravi di spese.
C'è poi un'altra questione che non bisogna perdere di vista, che riguarda i risparmiatori e più in generale l'opinione pubblica: quella dell'accertamento delle responsabilità. Se una maxiudienza rischia di allungare i tempi del dibattimento, tanti mini dibattimenti rischiano di svuotare di contenuti il processo, sfumando le cause della bancarotta e facendo perdere di vista la complessità dei fatti. Non bisogna dimenticare che senza il sostegno delle banche d'affari come Citigroup e Bank of America e senza la complicità delle società di revisione e di rating, a partire da Deloitte & Touche, la Parmalat non avrebbe avuto vita lunga. E se le banche resteranno fuori dal dibattimento principale - quello in cui sono imputati Calisto Tanzi e Fausto Tonna - le loro responsabilità verranno annacquate, perse di vista.
La tesi delle banche («siamo vittime del crack») non sta in piedi. Antonella Ioffredi e Silvia Cavallari, le pm che hanno condotto le indagini insieme al sostituto procuratore Vincenzo Picciotti (la Ioffredi è stata poi trasferita al Tribunale civile), avevano dichiarato al «Sole-24 Ore», nel maggio 2005, a conclusione dell'indagine principale, che Tanzi non si sarebbe mai potuto finanziare da solo e che le banche avevano avuto un ruolo primario di sostegno nei confronti della fallita Parmalat. Forse ci siamo dimenticati, a distanza di oltre quattro anni dalla bancarotta (era il dicembre 2003 quando Parmalat fu dichiarare insolvente), che alcune delle più grandi banche del mondo avevano aiutato Tanzi a camuffare i conti, erogando finanziamenti a Parmalat che in bilancio apparivano come operazioni di capitale, ma che nella realtà erano operazioni di debito.
Si dirà: le banche non potevano sapere che i bilanci del gruppo erano falsi e che i 4 miliardi di euro di liquidità che ufficialmente avrebbero dovuto trovarsi nella Bonlat (la "discarica" finanziaria delle Cayman) fossero pura invenzione di Fausto Tonna. Questo è vero. Ma come ha dimostrato la perizia Valla, pubblicata dal «Sole-24 Ore» il 13 febbraio di quest'anno, già nell'aprile 1997 un onesto ragioniere commercialista di Parma chiamato a far da consulente alla Procura aveva accertato che la società di Collecchio era in stato di grave affanno finanziario. Mario Valla (questo il nome) aveva esaminato i bilanci Parmalat del periodo 1993-95 (che probabilmente erano falsi già allora) e aveva scoperto comunque che i debiti della società erano in costante aumento, che le banche la finanziavano in modo esagerato, che l'autofinanziamento non bastava a rimborsarne gli oneri finanziari, che le attività per il turismo della famiglia Tanzi erano un colabrodo, che il gruppo Parmalat era in sostanza a rischio d'insolvenza e che senza la generosità delle banche non avrebbe mai potuto sopravvivere.
È forse troppo chiedersi come mai quel documento venne insabbiato e non invece spedito per posta celere a Consob e Banca d'Italia?
La lista dei banchieri e dei manager di società finanziarie indagati per il crack è addirittura più lunga di quella degli amministratori, dei sindaci e degli altri personaggi della corte di Tanzi che figurano nel troncone d'inchiesta principale. I banchieri indagati sono tra 70 e 80. Eppure, non c'è uno di loro che abbia perso il posto. Il presidente di Capitalia, Cesare Geronzi, è stato persino interdetto per due mesi dalle cariche sociali per il suo coinvolgimento nella vicenda Ciappazzi, e successivamente è stato tirato dentro nella vicenda Eurolat (due dei diversi filoni d'indagine sulla Parmalat). Ma senza conseguenze.
Mettere su uno stesso piano banche e bancarottieri può sembrare stumentale, e di sicuro lo è, in parte. Non a caso il giudice per le udienze preliminari ha rimproverato a Tanzi, nel respingere la richiesta di maxiprocesso, di aver sperato fino all'ultimo di avere come coimputati un certo numero di dirigenti bancari quasi per dimostrare con la loro presenza fisica in aula il loro diretto coinvolgimento nel dissesto. E tuttavia mantenere in disparte gli istituti di credito dal processo principale finisce per offrire, comunque, un quadro degli eventi incompleto, monco. Le responsabilità finiscono per annebbiarsi, per perdersi in rivoli. Resta per esempio da chiarire in che misura le banche, soprattutto quelle italiane, che inizialmente avevano finanziato Parmalat in modo diretto, hanno scaricato i loro crediti sul mercato obbligazionario. Resta da capire perché le obbligazioni Parmalat che erano in portafoglio alle banche furono vendute ai rispamiatori fino a un attimo prima del crack, quando ormai era chiaro che per la società era fallita.
Molte questioni restano da chiarire. Non ultimo il fatto che alcune delle banche imputate, come Capitalia e JP Morgan Chase, sono nel frattempo diventati importanti azionisti del gruppo, in aperto conflitto d'interesse. Per i risparmitori, l'ennesima beffa.
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