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8 luglio 2007

Senza privilegi le esenzioni per la Chiesa

di Enrico De Mita

Torna la polemica sulle esenzioni Ici relative ai beni della Chiesa Cattolica. E come già successo altre volte, predominano su certa stampa quotidiana imprecisioni e inesattezze, non sempre serene e meditate. La notizia recente è questa: la Commissione Ue avrebbe avviato una verifica su dette esenzioni, a seguito di formale richiesta di alcuni esponenti politici italiani. E la presunta contrarietà al diritto comunitario consisterebbe nella violazione delle norme sulla concorrenza.
Ora, a prescindere da alcuni interrogativi che occorrerebbe porsi (a chi farebbe concorrenza la Chiesa?), e dalla considerazione che il principio della concorrenza non sta vivendo il periodo di suo massimo splendore (il Presidente francese Sarkozy ne ha appena ottenuto una sorta di "declassamento"), è opportuno dar conto del corretto inquadramento costituzionale delle esenzioni in questione.
Innanzitutto, l'esenzione consiste in una norma eccezionale che sottrae a tassazione persone o beni che dovrebbero essere tassati secondo la regola. Essa è costituzionalmente legittima se il fine cui è preordinata è costituzionalmente degno di tutela: istruzione, cultura, beneficenza, risparmio, sviluppo economico ecc.; in ogni casi si tratta di materie nelle quali le scelte del Parlamento sono discrezionali. In secondo luogo, va chiarito che la Chiesa, se usufruisce di determinate agevolazioni, lo fa in maniera identica alle altre confessioni religiose e agli altri enti non commerciali: non ha essa uno status "preferenziale" che la differenzi dalle une o dagli altri.
Le esenzioni all'Ici (tutte) nascono con la legge istitutiva dell'imposta (non sono un privilegio successivo accordato in seguito a presunte pressioni, come è stato scritto). Il decreto legislativo n. 504/1992, infatti, prevede una serie di esenzioni: volendo semplificare, si tratta degli immobili appartenenti allo Stato e agli altri enti pubblici, dei fabbricati appartenenti a Stati esteri, dei fabbricati destinati all'esercizio del culto, dei fabbricati appartenenti ad enti non commerciali e destinati a particolari finalità ritenute meritevoli di tutela da parte del legislatore.
Mentre per i fabbricati destinati all'esercizio del culto l'esenzione non presenta particolari problemi interpretativi (e si tratta di tutti i culti, ovviamente), è l'ultima previsione ad essere stata al centro dell'attenzione, per la ricomprensione in essa degli enti ecclesiastici e per un corretto inquadramento delle attività da questi esercitate all'interno degli immobili posseduti.
La legge sull'Ici prevede l'esenzione per gli immobili degli enti non commerciali «destinati esclusivamente allo svolgimento di attività assistenziali, previdenziali, sanitarie, didattiche, ricettive, culturali ricreative e sportive», nonché delle attività di religione e di culto, vale a dire «quelle dirette all'esercizio e alla cura delle anime, alla formazione del clero e dei religiosi, a scopi missionari, alla catechesi, all'educazione cristiana».
Gli enti ecclesiastici, dunque, possono rientrare in questa fattispecie in due casi. O quando in quegli immobili svolgono le attività da ultimo viste (attività di religione e di culto); oppure quando gli immobili sono destinati alle attività assistenziali, previdenziali, sanitarie, didattiche, ricettive, culturali, ricreative e sportive. In questa seconda ipotesi, l'ente ecclesiastico viene in considerazione non in quanto tale, ma solo in quanto ente non commerciale.
Nel caso degli enti ecclesiastici, enti non commerciali per definizione, l'esenzione Ici spetta quindi per due tipologie di attività svolte nell'immobile, o quelle di religione e di culto (e in questo caso vale per tutte le religioni), oppure quelle assistenziali, previdenziali, sanitarie, didattiche, ricettive, culturali, ricreative e sportive (e in tal caso vale per tutti gli enti che svolgono quelle attività).
La Cassazione (e non la Corte Costituzionale, come pure è stato scritto) ha emanato alcuni anni fa una decisione (4645/2004) dalla quale sono derivate una serie di incertezze, seguite immediatamente dal consueto fiorire di polemiche: essa ha escluso l'esenzione in capo agli enti ecclesiastici per l'esercizio di attività di assistenza nel caso in cui l'attività sia «oggettivamente commerciale». Ora, se l'attività svolta è ricompresa fra quelle per le quali la legge sull'Ici prevede l'esenzione (valevoli per tutti gli enti non commerciali), non si comprende perché occorra far riferimento, come hanno fatto i giudici, ad altre categorie.
Altro è il fine perseguito da un'attività, altra è la sua qualificazione, la quale può investire solo il soggetto, nel senso che se questo è un soggetto commerciale, non se ne può giovare. Quindi, ciò che esclude l'esenzione, non è la qualifica dell'attività (o è di assistenza, o non lo è), ma la qualifica del soggetto. Le polemiche seguite hanno dato origine ad alcuni interventi del legislatore. Dapprima, il decreto collegato alla Finanziaria per il 2006 ha previsto l'applicazione dell'esenzione Ici a tutti i soggetti che svolgono le attività indicate in precedenza, «a prescindere dalla natura eventualmente commerciale delle stesse».
Poi, il cosiddetto decreto Bersani-Visco dello scorso autunno ha sostituito la norma introdotta l'anno precedente. La nuova formulazione della stessa, ora prevede che «l'esenzione prevista dall'articolo 7, comma 1, lettera i) del decreto n. 504/92 si intende applicabile alle attività indicate nella medesima lettera che non abbiano natura esclusivamente commerciale». L'interpretazione di quest'ultima norma è affidata al giudice, che solo può stabilire i presupposti per la sua applicazione. E la norma non può essere svilita con ipotesi tanto dilettantistiche quanto poco serie di aggiramento.



 
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