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Tutela Ue ai figli, neutralità sui partner
di Eliana Morandi
Le disposizioni europee non disciplinano direttamente le convivenze. La materia familiare, in senso ampio, rientra,infatti,nella competenza esclusiva degli Stati, poiché fortemente influenzata dalla tradizione e dalle radici culturali di ciascuna popolazione. Tuttavia i vari organi comunitari — la Commissione, il Consiglio, la Corte di Giustizia —hanno avuto occasione di occuparsi di questo fenomeno, in relazione alla tutela di diritti derivanti dal Trattato Ue.
Emerge una netta distinzione tra la posizione "politica" di dichiarata apertura espressa da Commissione e Consiglio —manifestata solo in risoluzioni e raccomandazioni, non vincolanti — e una posizione molto più cauta e, al limite, neutrale, assunta dalla Corte di giustizia e tradotta nelle disposizioni che effettivamente si collegano alla materia (per esempio la direttiva 2004/38).
L'argomento della convivenza è stato finora affrontato sostanzialmente in due ambiti: in primo luogo in relazione al diritto di circolazione dei lavoratori comunitari e, in secondo luogo, in relazione al divieto di discriminazioni nell'ambito lavorativo fondate sul sesso o sull'orientamento sessuale,ambito nel quale le posizioni antidiscriminatorie sono state decise e omogenee.
Sotto il primo profilo,per dare effettiva attuazione alla libertà di circolazione dei lavoratori, da tempo sono estesi ai loro familiari vari diritti considerati strumentali alla prima (quale il diritto al ricongiungimento, ma anche "vantaggi sociali" quali l'assegno di mantenimento per i figli minorati e agevolazioni sui trasporti). In quest'ottica, molteplici sono stati i tentativi di ampliare il concetto di "familiare"per estendere tali diritti anche ai conviventi e ai figli delle coppie non sposate.
Mentre nei confronti dei figli la protezione e l'estensione di diritti accordata è stata senza dubbio la più ampia possibile (in conformità alle diverse convenzioni internazionali a tutela del fanciullo), nei confronti del convivente la posizione normativa comunitaria — espressa sia nella direttiva 2004/38 sia nella giurisprudenza della Corte di giustizia — è sostanzialmente neutra, nel duplice senso che, da un lato, non vieta né obbliga gli Stati ad "ampliare" la nozione del coniuge fino a parificarla a quella del convivente e, dall'altro, esclude che questa parificazione sia o debba essere presente a livello di normativa comunitaria.
La Corte di Giustizia ha più volte sottolineato come non sia rilevabile un "comune sentire" tra i vari Stati membri e proprio per tale ragione ha ribadito la permanenza della distinzione tra coniuge e partner,rifiutando la parificazione. Nella sentenza sulle cause riunite "D" e "Svezia", la Corte ha testualmente affermato che non esiste, a livello comunitario,uniformità né di riconoscimento né di contenuti per le varie forme di unioni diverse dal matrimonio. Emerge, anzi,che tutti gli Stati considerano tali forme di convivenza proprio sulla base della loro "diversità" dal matrimonio, termine questo, rileva la Corte, che secondo la definizione generalmente accettata dagli Stati membri indica l'unione tra due persone di sesso diverso.
Quanto alla normativa scritta comunitaria in materia di circolazione dei cittadini dell'unione e dei loro familiari, la più recente espressione si trova nella direttiva 2004/38, che, sostituendo precedenti fonti, ha dettato una definizione di " familiare"che,pur richiamando il convivente, ribadisce la voluta "neutralità" rispetto alle posizioni assunte, in piena autonomia, dagli Stati.
L'articolo 2, comma 2, lett. b) della direttiva, infatti, estende al convivente la qualifica di familiare solo se si realizzano due diverse condizioni: in primo luogo, che i due abbiano contratto un'"unione registrata" in base alla normativa di uno Stato membro che le preveda; e, in secondo luogo,che la legislazione dello Stato equipari l'unione registrata al matrimonio. La direttiva recepisce la posizione consolidata della Corte, che siè sempre limitata a censurare il comportamento di uno Stato che rifiuti a cittadini di altri Stati europei i diritti che riconosce ai propri. Uno Stato deve, perciò, riconoscere ai conviventi di altri Stati europei i diritti sociali che riconosce al convivente dei propri cittadini.
Ma nessuno Stato è obbligato a dare riconoscimento a unioni civili contratte in altri Stati, qualora la propria legislazione interna non le preveda o non le equipari al matrimonio.
Si è cercato di vedere un obbligo comunitario di riconoscimento delle "famiglie di fatto" nell'articolo 9 della Carta di Vienna del 2001 che afferma il diritto dell'individuo a sposarsi e a formare una famiglia. Questa previsione, però, non è, nè sarà mai, strumento normativo comunitario vincolante. Gli stessi estensori, poi, si sono dati cura di ribadire espressamente che da essa non discendono per gli Stati né divieti né obblighi di riconoscimento per forme di convivenza diverse dalla famiglia, sottolineando così ancora una volta che la nozione di famiglia appartiene alla competenza — e prima ancora allacultura — di ciascuna nazione.

9 febbraio 2007


 

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