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13 maggio 2005

Pietro, diario di un male quotidiano

Sotto il titolo “Il male è nelle cose”, il truce autoritratto del pittore Otto Dix – sguardo più che severo e garofano rosa tenuto tra le dita con beffarda delicatezza- pare sottolineare la perentorietà di un’ipotesi filosofica che il poeta Maurizio Cucchi, nella veste inconsueta di romanziere, ha tratto e sviluppato da una poesia di Giovanni Raboni. Il male, imprescindibile e pur sempre sfuggente, è forse “nel programma”. Esiste, non lo si inventa, lo si trova. Che sia la bomba atomica, preconfezionata, in fondo, nelle infinite potenzialità della natura, o l’istinto umano, di cui l’uomo è chiamato a decifrare il percorso più preciso e connaturale: “colpire il debole o soccorrerlo?”
Ipotesi intrigante, aperta ai dilemmi e alle acrobazie del pensiero, che Cucchi tenta, in realtà, di superare, convinto della sostanziale bontà dell’uomo, in grado di correggere con la forza della volontà il male. Che “c’è” -ha più volte precisato l’autore nelle interviste rilasciate- “ma non so chi l’abbia messo”. Ribadendo cosi’, in un contesto filosofico ma non elitario – perché il male e i suoi enigmi sono l’inciampo dell’ordinaria quotidianità- quel suo ateismo che non esclude né elude il senso religioso. La tensione – verso l’oltre, verso l’altro- del nostro esistere nonostante la “truffa” del dolore e della morte.
Maurizio Cucchi, nato nel 1945, consulente letterario e pubblicista, considerato uno dei più grandi poeti italiani viventi(cantore “della milanesità”, poeta espressionista), si è imposto all’attenzione della critica nel 1976 con “Il disperso”. Vincitore del premio Viareggio con “Glenn”(1982) e del premio Montale nel 1993 con “Poesia della fonte”, ha curato il Dizionario della poesia italiana per l’editrice Mondadori e, con Stefano Giovanardi, l’antologia Poeti italiani del secondo Novecento 1945-1995. Poeta a tutto campo, esordisce a sorpresa nella narrativa con un viaggio a ritroso nel tempo. La stesura e struttura originale del suo romanzo risale, infatti, al 1965 e addirittura al 1963 la parte conclusiva, nata come racconto autonomo. Pur ampiamente adattato ai nostri tempi(con rapide citazioni, talvolta un po’ forzate e ingenue, di realtà ed eventi di cronaca recenti, dal delitto di Erika ed Omar a quello di Cogne)la storia di Pietro, giovane trentenne tanto versatile e dinamico nelle elucubrazioni del pensiero quanto sfaccendato nella quotidianità pigra e inconcludente –vivere non è fare- è, in fondo, una vicenda senza tempo. Come il male. O le insicurezze, la vertigine – che Pietro prova, fisicamente, prima dei suoi deliri- di qualsiasi giovane che prenda coscienza della propria identità.
Essenziale nell’intreccio, ma incalzante nei brevi capitoli che portano la data come in un diario impersonale, il romanzo propone con credibilità l’inquietante metamorfosi di Pietro. Giovane sensibile e colto, affascinante in quanto imprevedibile. Attratto, senza una netta presa di posizione, da due diverse ragazze. Sfuggente con i genitori, presso i quali continua, tuttavia, ad abitare. Solitario, ma alla ricerca di oasi di spontaneità con i pochi amici solidali: Giacomazzi il musicista o il saggio, alcolizzato Andrea.
Pietro vive alla giornata, tra letture, cappuccini al bar e fughe improvvisate all’estero quando i problemi si fanno assillanti. Senza progetti, se non la ricerca inquieta di benessere interiore. Di verità e sentimenti tanto urgenti quanto facilmente confutabili. Tradito da un’affettività non maturata in scambio e coinvolgimento appassionato, ma in una sorta di pietà morbosa verso la “dolce debolezza inerme” che è in ogni creatura(le ignare goffaggini, i gesti meccanici e spersonalizzanti, le illusioni talvolta grottesche), Pietro, incapace di porre rimedio alle miserie umane, diviene vittima della sua stessa sensibilità. E la compassione si fa aggressione. Carezze, complicità e commozione cedono il campo a incontrollabili crudeltà verbali e fisiche. Sino all’epilogo, folle e inatteso. Inevitabile, in fondo, quando il male e il dolore sono ormai “gioia sinistra”.
Il romanzo mantiene tese le corde della curiosità e del disagio. E se la tematica affrontata può giustificare, pur a debita distanza, l’accostamento all’esistenzialismo o a Dostoevskij, ci pare, tuttavia, che la poesia sia pietra d’inciampo del Cucchi romanziere. E non perché la sua sia una prosa poetica. Ma proprio perché il tentativo di adeguarsi alla struttura del romanzo porta, a nostro avviso, l’autore a forzature che la poesia, immediata, non conosce. Pur calando palesemente nella quotidianità l’enigma del male, Cucchi sceglie come portavoce un giovane di raffinata cultura –e le citazioni, letterarie o musicali, risultano talvolta eccessive e compiaciute- le cui riflessioni appaiono in contrasto con il contorno narrativo ed esplicativo. E’ pleonastico sottolineare che “Pietro aveva un occhio speciale, un occhio molto acuto sulle cose, sui comportamenti umani”, quando una sua meditazione, appena conclusa, è già poesia e filosofia. Acuta e compiuta. Meglio, allora, un intreccio più complesso (Dostoevskij docet). O una poesia. Per ogni pagina datata del diario di Pietro e del suo male.

Maurizio Cucchi
“Il male è nelle cose”
Mondadori, pagg. 145, euro 16,00

Invia una emailSilvia Giuberti



 

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